Bisogna fare una stima dei vantaggi reali
Riforma costituzionale Renzi-Boschi: razionalmente, rifiuto
Si è voluto sottolineare in un modo tanto frequente quanto contraddittorio, da parte delle diverse forze politiche, quanto la decisione sul voto del referendum del 4 Dicembre non debba essere presa su basi personalistiche bensì sul “merito” della riforma in sé. Ma se è sbagliato valutare una riforma Costituzionale secondo il principio di autorità non lo sarà se, invece, si prende atto delle caratteristiche delle “autorità” in gioco, e dei dati di fatto che provengono da essi, per calcolare cosa conviene pragmaticamente a noi fare. Poiché il giudizio sull’utilità di un disegno di legge, si converrà, va calcolato tenendo conto di tutte le possibilità ed i parametri contestuali che la sua approvazione mette in luce. Anche quelli non dichiarati nero su bianco nel testo della riforma stessa.
Bisogna quindi fare una stima dei vantaggi reali che le modifiche proposte apporterebbero, e bisogna chiedersi se essi sono tali da mettere in ombra i costi che queste determinano. Di questi costi, se ne citano spesso quattro.
Il primo è il deficit di democrazia diretta conseguente al fatto che dei 100 componenti del nuovo Senato, 5 sarebbero eletti dal Presidente della Repubblica e 95 «eletti, con metodo proporzionale, dai Consigli Regionali» che li scelgono «fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori» (Art. 57).
Il secondo costo sarebbe il pericolo, che il testo della riforma non dissipa, di sottoporre tali Senatori all’onere poco sostenibile di servire sia come parlamentari della Repubblica sia, contemporaneamente, come Consiglieri Regionali o sindaci.
Il terzo, ancora, sarebbe il rischio che determinati Consiglieri o sindaci possano essere nominati ad hoc per giovarsi di una eventuale mancata autorizzazione del Parlamento all’autorità giudiziaria a procedere. Ciò per evitare di essere sottoposti a perquisizioni personali o arresti (in mancanza di una sentenza irrevocabile o della flagranza), ad intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni e a sequestro della corrispondenza.
Il quarto rischio concerne l’equilibrio dei poteri tra esecutivo e Parlamento, e l’indebolimento di quest’ultimo. Il Governo può chiedere alla Camera una ‘via preferenziale’ per l’approvazione di una data legge (Art. 72). La Camera ha 5 giorni di tempo per accogliere tale richiesta e, se lo fa, deve discutere e deliberare su tale legge entro 70 giorni. Il pericolo sarebbe che il Governo usi la sua influenza per determinare la priorità di alcune leggi e alcuni decreti rispetto ad altri.
I sostenitori del Sì affermano che non solo queste siano imperfezioni trascurabili, ma che siano letteralmente surclassate dai benefici che tutto questo impianto implica. Questi benefici consisterebbero in
A – un chiarimento delle dispute di competenza tra Stato e Regioni (Art. 117). Si sarebbero poste univocamente sotto la competenza Statale materie come coordinamento della finanza pubblica e sistema tributario, disciplina giuridica del lavoro nelle P.A., tutela della salute, politiche sociali, produzione e distribuzione dell’energia, istruzione universitaria, immigrazione.
B – una semplificazione dei procedimenti legislativi, legati ai nuovi strumenti di cui il Governo può disporre – connessi a quello che abbiamo considerato come quarto rischio – e al nuovo articolo 70, il quale specifica in quali ambiti il Senato conserverà pienamente la funzione legislativa e in quali essa spetterà alla sola Camera.
C – un abbassamento del quorum per la validità di un referendum (Art. 75): si passerebbe, infatti, dalla maggioranza degli aventi diritto alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati, ammesso che il referendum sia richiesto da almeno 800 mila elettori.
D – un taglio dei costi della politica, stimato in 58 milioni di Euro.
Tali misure, però, hanno un senso e una verità solo nella cornice in cui esse si esplicano. Hanno un significato solo se rapportate alle regolarità politiche dimostrabili, in cui si concretizzano. Altrimenti sono astrazioni, un puro flatus vocis.
Se “inscriviamo” il punto A nel contesto delle autorità politico-istituzionali in cui si troverebbe a funzionare, non si può fare a meno di osservare che tutte le legislazioni sulle materie citate sono de facto, prima che di diritto, determinate dalle norme di bilancio dei Trattati Europei e dalla costituzione materiale del sistema finanziario dell’UE. Esse non sono determinate liberamente dallo Stato Italiano. Dall’entrata nella moneta unica la Repubblica Italiana, infatti, è uno Stato che dipende solo da prestiti di enti terzi per finanziare quello che non può coprire con le tasse. Ciò significa che, soprattutto se si trova in recessione o stagnazione (e l’Italia lo è da 8 anni), esso non ha altra scelta che rispettare i vincoli ratificati nel Trattato di Maastricht e di Lisbona, come quello del massimo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Altrimenti i “mercati” cominceranno a non fidarsi più dei titoli di Stato nazionali e a speculare sul debito pubblico. Questo implica che qualsiasi deliberazione governativa su finanza pubblica e sistema tributario, disciplina giuridica del lavoro nelle P.A., tutela della salute, politiche sociali, produzione e distribuzione dell’energia, istruzione universitaria e così via, sarà (come lo è già) inevitabilmente compromessa da questo vincolo, a causa del quale l’Italia ha tagliato del 30% la spesa pubblica per investimenti solo nei 4 anni successivi allo scoppio della crisi, passata così dai 54,2 miliardi del 2009 ai 38,3 miliardi del 2013 (dati Eurostat). Abbiamo così un Governo che promette di poter fare meglio delle Regioni nella gestione di determinati servizi, pur avendo gli stessi ostacoli finanziari di queste ultime. Lo Stato, nell’assetto Europeo attuale, può mandare inesorabilmente (senza possibilità di tornare indietro) in malora le proprie finanze e causare inefficienze ai suoi servizi, esattamente come possono fare e hanno fatto determinate Regioni. La perdita di senso del vantaggio del punto A dovuta alle autorità istituzionali e politiche dal quale è attuato è completata dal fatto che la riforma conferma(Art. 55, 70 e 117) la priorità del diritto Europeo su quello nazionale. Al calcolo totale dei costi e dei benefici bisogna aggiungere il fatto oggettivo per cui il partito politico che maggiormente gioverebbe, a livello mediatico, di una vittoria del Sì, non mostra alcuna intenzione programmatica di ritornare ad un sistema finanziario nazionale.
Anche per esplicitare la mancanza di senso del secondo vantaggio basta contestualizzare i valori che vuole portare avanti. Nei rapporti della Camera dei Deputati osserviamo che, dal 1997 al 2013, l’Italia è al secondo posto nell’Unione Europea come velocità di leggi approvate ogni anno (120 contro le 91 della Francia ad esempio, o le 42 della Gran Bretagna). Inoltre vediamo come, nella presente legislatura, su 224 leggi approvate fino al 30 Giugno 2016, l’80,4% di esse ha avuto una sola lettura in entrambe le Camere e solo una legge ha avuto un numero di passaggi tra Camera e Senato che può essere considerato “alto” (5). Tutto ciò rende un falso problema la supposta inefficienza del bicameralismo perfetto e, sicuramente, la rende una questione razionalmente insignificante rispetto ai rischi citati sopra.
Contestualizzando anche il punto C, citiamo il giurista Luca Benci che nota che l’innalzamento da 500 mila ad 800 mila firme richieste per la modifica del quorum nasconde il fatto che «800 mila firme sono un traguardo che quasi mai è stato raggiunto durante le raccolte di firme referendarie».
L’obiettivo del taglio dei costi della politica, infine, è apparentemente difficile da giudicare “oggettivamente”. Ci si può solo chiedere se convenga sacrificare una parte di democrazia diretta e un sistema di equilibri apprezzato nella costituzione del Senato e nei rapporti tra Parlamento e Governo, per un risparmio di 58 milioni una volta che esso è messo in prospettiva, ad esempio, alle cifre sopra esposte che manifestano un calo di più di 16 miliardi in 4 anni di investimenti pubblici solo per mantenere lo status quo delle istituzioni finanziari attuali. Non credo valga la pena rinunciare per sempre a queste caratteristiche per una cifra relativamente risibile, soprattutto considerando che la possibilità di ottenerla non svanisce con il No alla riforma: non sarebbe razionale. Per spingerci un po’ più in là, nel terreno delle ipotesi, possiamo addirittura stimare che una vittoria del No avvantaggerebbe elettoralmente una forza di opposizione che ha dimostrato di proporre una legge mirata a risparmiare non 58 ma 87 milioni, dai tagli ai costi della politica.
E’ uno dei calcoli che si può fare, ma non è essenziale per arrivare a deliberare che, considerato il contesto sociale e delle autorità politiche dentro cui la riforma avrebbe luogo, i benefici che essa apporterebbe non superano i costi, perciò è ragionevole rifiutare questa modifica.
(Josh Mirante)