Cultura e Società

Tu scendi dalle stelle

S. Alfonso Maria de Liguori cantore del Natale

Alcune note storiche

Dalla culla alla croce – foto Brugnano

Già dall’inizio di dicembre (e forse prima) le case degli italiani sono invase dai prodotti di consumo legati al Natale imposti da una pubblicità sempre più aggressiva di ditte che, per non correre il rischio di essere battute dalla concorrenza, tendono ad anticiparne i tempi, con il risultato di sminuire l’intensità della festa.
I credenti oggi sono chiamati anche a questo tipo di vigilanza: non lasciarsi sommergere o travolgere dalla pubblicità, specie in momenti di intenso interesse spirituale. Il Natale deve restare una festa di esclusivo sapore religioso con connotazioni di serena intimità familiare.
Nelle nostre case ancora oggi – ma un po’ più a fatica – si costruisce ancora il presepe: bella usanza ereditata dal ‘700 napoletano.
Infatti nel 1700 la città di Napoli si segnala all’attenzione di tutti per la costruzione dei presepi: da quello costruito dalle mani stesse di re Carlo di Borbone per la reggia, da quelli classici del Somma, Bottiglieri, Cappelli e soprattutto del Sammartino, fino a quelli più semplici, ma anche più veri, nelle case dei poveri, nei bassi, nelle botteghe, nei vicoli.
Su questo fervore di sacro artigianato S. Alfonso nella sua “Novena del Natale”, pubblicata a Napoli nel 1758 “per fare comprendere il grande mistero di amore del Figlio di Dio nell’Incarnazione… “cala la sua meditazione, invitando i fedeli a fare del proprio cuore un presepe dove accogliere Cristo che viene e fa cantare di gioia i cuori. Egli resta il cantore più eccellente del Natale per i suoi canti: Tu scendi dalle stelle, Quanno nascette Ninno a Bettalemme, Fermarono i cieli…

Disegno di P. Giovanni Di Maio, redentorista

Ancora oggi al credente che si prepara spiritualmente al Natale il canto di S. Alfonso “Tu scendi dalle stelle” rivela una squisita ricchezza teologica di contenuti oltre che la dolcezza della melodia. Facendo rivivere la tenerezza che gustava S. Francesco davanti al primo presepio di Greccio. Ma in prospettiva il Santo già vede la Croce, che è il punto di arrivo del Bambino che nasce.
Essa fu composta nella città di Nola, mentre era in predicazione, ospite della famiglia Zambadelli, come affermano gli studiosi Celestino Berruti (Lo Spirito di S. Alfonso, Ed. III, Prato 1896, a pag. 328) e Oreste Gregorio (Canzoniere alfonsiano. Studio critico estetico con testo, Angri 1933, p. 136). S. Alfonso la diede alle stampe nel 1755; la ripubblicò nel 1768 dopo averla in parte ritoccata.
La seconda composizione pastorale è in dialetto napoletano “Quanno nascette Ninno a Bettalemme, era notte e pareva miezo juorno”. Fu composta dal Santo verso il 1779; essa è molto apprezzata dai cultori e studiosi del dialetto napoletano, perché contiene arte, lirismo, freschezza di immagini, armonia e suono.
La terza pastorale è anche molto conosciuta dal popolo cristiano “Fermarono i cieli la loro armonia”; fu scritta da S. Alfonso nel 1738: contemplazione, canto amoroso alla Madonna in estasi davanti a Gesù Bambino, rapimento per il cuore umano.
Gli studiosi sono concordi che il ciclo natalizio ha trovato in S. Alfonso il santo missionario, lo scrittore, il poeta, il mistico cantore dell’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio. Il nome di S. Alfonso rimane legato a questo mistero principale della nostra fede.
Tu scendi dalle stelle e Giuseppe Verdi – In occasione del Natale del 1880 il grande musicista Giuseppe Verdi che si trovava nel Palazzo Doria, a Genova, volle assistere alla Messa di mezzanotte. Celebrava D. Colombara, assistito da tre chierichetti e cantava Landolfo, valente soprano. Col maestro Verdi vi era la signora Strepponi, il signor De Amicis ed altri. Dopo la consacrazione, il soprano Landolfo con i tre chierichetti intonò la pastorale alfonsiana: Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo… Il maestro G. Verdi con tutti i presenti si congratulò vivamente per la esecuzione del canto, aggiungendo: “Senza questa pastorale di S. Alfonso, il Natale non sembra Natale!”
Tu scendi dalle stelle in Vaticano – S. Alfonso nel comporre la sua pastorale non avrà certamente pensato che questa un giorno sarebbe entrata nel Vaticano e cantata dallo stesso Vicario di Cristo. Il 14 dicembre 1955 alcuni zampognari calabresi, nei loro tipici costumi, furono ammessi nell’aula delle benedizioni con i loro strumenti musicali. Con entusiasmo suonarono e cantarono la pastorale alfonsiana Tu scendi dalle stelle. Ci fu un momento di intensa commozione. Il Santo Padre Pio XII si alzò in piedi e con lui tutta l’assemblea e tutti cantarono la pastorale. Al termine, il Papa si intrattenne cordialmente con gli zampognari calabresi incoraggiandoli a collaborare con la loro arte musicale alla preparazione del Natale.
Livio Tempesta e Tu scendi dalle stelle – Il nome di Livio Tempesta (1941-1951), in Italia, è legato al premio per l’opera della bontà nelle scuole, con la quale si cerca di inoculare nei bambini il senso della generosità silenziosa. Infatti Livio, morto il 7 gennaio, a soli 10 anni, era caritatevole con tutti e amava rallegrare i bambini anche col canto e specie con Tu scendi dalle stelle. Ecco perché negli anni passati gli scolari di Guagnano (LE), ogni anno il 7 gennaio si portavano al cimitero e sulla tomba di Livio cantavano, in delicato omaggio, la pastorale “Tu scendi dalle stelle” da lui preferita.
Tu scendi dalle stelle – Precisazione sul cognome della famiglia Zamparelli. – In margine al cognome della famiglia di Nola che ospitò S. Alfonso nel 1755, il prof. Renato Nicodemo precisa: si chiamava Zamparelli e non Zambadelli (Alle origini di “Tu scendi dalle stelle”, in S. Alfonso – Anno XV (2001) n.1 – p. 7). Ed è un succoso aneddoto. Il sacerdote don Michele, avendo ascoltato dalla bocca del Santo la bella composizione, la copiò di nascosto e se la mise in tasca. Prima della predica in chiesa, S. Alfonso era solito insegnare una canzoncina: quella sera volle insegnare Tu scendi dalle stelle. Ad un certo punto si fermò, facendo finta di non ricordare più il testo e lo chiese a don Michele: “Quello che avete in tasca!”. Il sacerdote si vide scoperto e, suo malgrado, si appressava a dare la carta, ma il Santo già aveva ripreso il canto.
Ora il cognome di D. Michele (Zambadelli o Zambardelli secondo le varie tradizioni) è Zamparelli. Don Michele, infatti, apparteneva alla nobile famiglia Zamparelli, che fu protagonista per buona parte della storia di S. Leucio del Sannio, nelle cui zone si insediò alla fine del 1500, proveniente dalla Spagna.
“Ho potuto scoprire l’errore, se così vogliamo chiamarlo, conversando un giorno con l’ins. Vincenza Cavuoto, abitante proprio a S. Leucio, la quale mi ha fatto dono di due pubblicazioni, una di C. Porcaro, La collina delle querce, S. Arpino 1980, e l’altra di P. Zerella, San Leucio del Sannio ‑ Frammenti di Storia, S. Giorgio del Sannio 1994, che parlano entrambe sia della famiglia Zamparelli sia dell’ospitalità offerta a Nola a S. Alfonso durante la Missione natalizia (all’epoca non era ancora stato costruito il palazzo di S. Leucio).
La precisazione, è vero, nulla aggiunge né toglie alla celeberrima poesia e al gustoso episodio, ma ritengo utile riportarla per gli amanti della precisione, qual era S. Alfonso (Renato Nicodemo)
Auguri di Buon Natale e di un Felice Anno Nuovo!

Tu scendi dalle stelle
(canzoncina a Gesù Bambino) 
 
 

 

 

Tu scendi dalle stelle, o Re del Cielo,

e vieni in una grotta al freddo, al gelo.

O Bambino mio Divino,

io ti vedo qui tremar.

o Dio beato,

e quanto ti costò l’avermi amato!

A Te, che sei del mondo il Creatore

mancano panni e fuoco, o mio Signore.

Caro eletto Pargoletto,

quanto questa povertà

più m’innamora,

giacchè ti fece Amor povero ancora.

Tu che godi il gioir nel Divin Seno,

come vieni a penar su questo fieno?

Dolce amore del mio core,

dove Amor ti trasportò?

O Gesù mio,

per chi tanto patir, per amor mio!

Ma se fu tuo volere il tuo patire,

perché vuoi pianger poi, perché vagire?

Sposo mio, Amato Dio,

mio Gesù, t’intendo sì;

ah mio Signore,

tu piangi non per duol, ma per amore.

Tu piangi per vederti da me ingrato

dopo sì grande Amor, sì poco amato.

O Diletto del mio petto,

se già un tempo fu così,

or Te solo bramo.

Caro, non pianger più, ch’io t’amo, io t’amo.

Tu dormi, o Ninno mio, ma intanto il Core,

non dorme no, ma veglia a tutte l’ore:

deh mio bello e puro Agnello,

a che pensi dimmi Tu?

O Amore immenso,

a morire per te, rispondi, Io penso.

Dunque a morir per me Tu pensi, o Dio,

e ch’altro amar fuori di Te poss’io?

O Maria, Speranza mia,

s’io poc’amo il tuo Gesù,

non ti sdegnare,

amalo Tu per me, s’io nol so amare.

Quanno nascette Ninno
(per la nascita di Gesù)
 
 
 
 

 

 

Spartito Quando nascette ninno

 

Quanno nascette Ninno a Bettalemme

Era nott’, e pareva miezo juorno.

Maje le Stelle lustre e belle

se vedetteno accossì:

e a cchiù lucente

jett’a chiammà li Magge all’Uriente.

De pressa se scetajeno l’aucielle

cantanno de na forma tutta nova:

pe ‘nsì agrille ? co li strille,

e zombanno a ccà e a llà;

E’ nato, è nato,

decevano, lo Dio! che nc’ à criato.

Co tutto ch’era vierno, Ninno bello,

nascetteno a migliara rose e sciure.

Pe ‘nsì o ffieno sicco e tuosto

che fuje puosto sott’a Te,

se ‘nfigliulette,

e de frunnelle e sciure se vestette.

A no paese che se chiamma Ngadde,

sciurettero le bigne e ascette l’uva.

Ninno mio sapuritiello,

rappusciello d’uva sì Tu;

ca tutt’ammore

faje doce a vocca, e po mbriache o core.

No nc’ erano nemmice pe la terra,

la pecora pasceva co lione;

co o caprette se vedette

o liupardo pazzeà;

l’urzo e o vitiello

e co lo lupo ‘n pace o pecoriello.

Se rrevotaje nsomma tutt’o Munno,

lu cielo, a terra, o mare, e tutt’i gente.

Chi dormeva se senteva

mpiett’o core pazzeà

pe la priezza;

e se sonnava pace e contentezza.

Guardavano le ppecore i Pasturi,

e n’Angelo sbrannente cchiù do sole

comparette e le decette:

no ve spaventate no;

contento e riso

la terra è arreventata Paraviso.

A buje e nato ogge a Bettalemme

du Munno l’aspettato Sarvatore.

Dint’i panni o trovarrite,

nu potite maje sgarrà,

arravugliato,

e dinto a lo Presebio curcato.

A meliune l’Angiule calare

co chiste se mettetten’a cantare:

Gloria a Dio, pace ‘n terra,

nu cchiù guerra, è nato già

lo Rre d’amore,

che dà priezza e pace a ogni core.

Sbatteva o core mpietto a ssi Pasture;

e l’uno ‘nfaccia all’auto diceva:

Che tardammo? Priesto, jammo,

ca mme sento scevolì

pe lo golio

che tengo de vedè sso Ninno Dio.

Zombanno, comm’a ciereve ferute,

correttero i Pasture a la Capanna;

là trovajeno Maria

co Giuseppe e a Gioja mia;

e ‘n chillo Viso

provajeno no muorzo i Paraviso.

Restajeno ncantate e boccapierte

pe tanto tiempo senza dì parola;

po jettanno lacremanno

nu suspiro pe sfocà,

da dint’o core

cacciajeno a migliara atte d’amore.

Co a scusa de donare li presiente

se jetteno azzeccanno chiano chiano.

Ninno no li refiutaje,

l’azzettaje comm’a ddì,

ca lle mettette

le Mmane ncapo e li benedicette.

Piglianno confedenzia a poco a poco,

cercajeno licenzia a la Mamma,

se mangiajeno li Pedille

coi vasille mprimmo, e po

chelle Manelle,

all’urtemo lo Musso e i Mascarielle.

Po assieme se mettetteno a sonare

e a canta cu l’Angiule e Maria,

co na voce accossì doce,

che Gesù facette: a aa…

E po chiudette

chill’uocchie aggraziate e s’addormette.

La nonna che cantajeno mme pare

ch’ avette a esse chesta che mò dico.

Ma nfrattanto io la canto,

mmacenateve de stà

co li Pasture

vecino a Ninno bello vuje pure.

vien’e adduorme sso Nennillo;

pe pietà, ca è peccerillo,

viene suonno e non tardà.

Gioia bella de sto core,

vorria suonno arreventare,

doce, doce pe te fare

ss’uocchie bell’addormentà.

Ma si Tu p’esser’amato

te si fatto Bammeniello,

sulo amore è o sonnariello

che dormire te po fa.

Ment’è chesto può fa nonna,

pe Te st’arma è arza e bona.

T’amo, t’a… Uh sta canzona

già t’ha fatto addobeà

T’amo Dio, Bello mio,

t’amo Gioja, t’amo, t’a…”.

Cantanno po e sonanno li Pasture

tornajeno a le mantre nata vota:

ma che buò ca cchiù arrecietto

non trovajeno int’a lu pietto:

a o caro Bene

facevan’ogni poco ò va e biene.

Lo nfierno sulamente e i peccature

ncocciuse comm’a isso e ostinate

se mettetteno appaura,

pecchè a scura vonno stà

li spurtegliune,

fujenno da lo sole li briccune.

Io pure songo niro peccatore,

ma non boglio esse cuoccio e ostinato.

Io non boglio cchiù peccare,

voglio amare, voglio stà

co Ninno bello

comme nce sta lo voje e l’aseniello.

Nennillo mio, Tu si sole d’amore,

faje luce e scarfe pure o peccatore:

quanno è tutto niro e brutto

comm’a pece, tanno cchiù

lo tiene mente,

e o faje arreventà bello e sbrannente.

Ma Tu mme diciarraje ca chiagniste,

acciò chiagnesse pure o peccatore.

aggio tuorto: haje, fosse muorto

n’ora primmo de peccà!

Tu m’aje amato,

e io pe paga t’aggio maltrattato!

A buje, uocchie mieje, doje fontane

avite a fa de lagreme chiagnenno

pe llavare, pe scarfare

Li pedilli di Gesù;

chi sa pracato

decesse: via, ca t’aggio perdonato.

Viato me si aggio sta fortuna!

che maje pozzo cchiù desiderare?

O Maria, Speranza mia,

ment’io chiagno, prega Tu:

penza ca pure

sì fatta Mamma de li peccature.

Fermarono i cieli
(Maria contempla il SS. Bambinello che dorme)
 
 

 

 

Spartito Fermarono i cieli

Fermarono i cieli

la loro armonia,

cantando Maria

la nonna a Gesù.

Con voce divina

la Vergine bella,

più vaga che stella,

diceva così:

Mio Figlio, mio Dio,

mio caro Tesoro,

tu dormi, ed io moro

per tanta beltà.

Dormendo, mio Bene,

tua Madre non miri,

ma l’aura che spiri

è fuoco per me.

O bei occhi serrati,

voi pur mi ferite:

or quando v’aprite,

per me che sarà?

Le guance di rose

mi rubano il core;

o Dio, che si more

quest’alma per Te!

Mi sforz’a baciarti

un labbro sì raro:

Perdonami, Caro,

non posso, più, no.

Si tacque ed al petto

stringendo il Bambino,

al volto divino

un bacio donò.

Si desta il Diletto

E tutto amoroso

con occhio vezzoso

la Madre guardò.

Ah Dio, ch’alla Madre

quegli occhi, quel guardo

fu strale, fu dardo

che l’alma ferì!

E tu non languisci,

o dur’alma mia,

vedendo Maria

languir per Gesù?

Che aspetti, che pensi?

Ogn’altra bellezza

è fango, è bruttezza;

risolviti su.

Sì, sì che trionfa

amor nel mio seno:

sì, sì vengo meno

per doppia beltà.

Se tardi v’amai,

Bellezze divine;

or mai senza fine

per voi arderò.

Il Figlio e la Madre,

la Madre col Figlio,

la rosa col giglio

quest’alma vorrà.

La pianta col Frutto,

il frutto col Fiore

saranno il mio amore,

nè altro amerò.

Non cerco diletti,

mercede non bramo;

mi basta, se t’amo,

l’amarti è mercè.

Per ascoltare l’audio cliccare sullo spartito
Alla chitarra, Antonio Saturno
Voce, Tommaso Castello

Un recupero storico, antropologico ed etno-musicale a cura di Salvatore Brugnano
Religiosità popolare:
Il Natale in Calabria: canti, riti, usanze

http://www.gazzettinotropea.it/NataleVolume%281%29.htm

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