Una giornata senza programmi
di Pasquale Lorenzo
foto Salvatore Libertino
Attraverso il racconto
dell’autore, un invito a visitare le bellezze della Calabria e a conoscere le
sue tradizioni.
Tropea - La giornata si presentava male e, quel mattino, grigio e piovigginoso,
non prometteva, certo, il sole delle tintarelle.
Le tovaglie colorate, ripiegate sui tavoli vuoti del bar, e gli ombrelloni
accatastati in un angolo, davano l’impressione di essere in un fine settembre,
mentre si era ancora a fine giugno, con l’estate che cominciava tra le speranze
degli impresari turistici ed i preparativi dei
commercianti.
Intanto la pioggia cadeva uniforme da un cielo cupo e chiuso come un sipario di
un teatro senza programmi. Sulla spiaggia solo una giovane donna, magra, dai
capelli neri, camminava in bikini con i piedi nel mare. Arrivata vicino al lido
e, accortasi del bar al coperto, sotto una stuoia di canne e di nylon, si
avvicinò al banco, guardando la macchina del caffè. Si voltò verso di me, unico
spettatore di quella scena, e, avendomi scambiato per il barista, mi chiese un
caffè che mi avrebbe pagato l’indomani, alloggiando lei nel vicino hotel Rocca
Nettuno ed essendo, al momento, priva di moneta. Parlava un italiano sillabato.
Chiamai il barista, che si dava da fare in uno sgabuzzino, e ordinai due caffè
da portare al mio tavolo, facendo cenno alla ragazza di sedersi vicino a me. "Du
bist eingeladen" (Sei invitata) - dissi -, avendo intuito che era tedesca,
nonostante i capelli neri. Si stupì del mio intuito e del mio tedesco. Si
sedette compiaciuta. Parlammo della pioggia, delle vacanze, dei suoi capelli,
rari per una tedesca. Pagai i caffè,
che intanto avevamo già bevuto, e le
offrii di accompagnarla al suo hotel in macchina, essendo la pioggia divenuta
più insistente e fitta. Esitando, mi mostrò con le mani le sue nudità, muovendo
gli occhi su di me, vestito dalla testa ai piedi. Se, nuda, poteva stare vicino
al mare, non sarebbe stata la stessa cosa dentro un’auto e vicina ad un ragazzo
vestito. In un lampo mi levai maglietta e pantaloni e rimasi anch’io in costume
da bagno. Rise divertita.
Dopo poco eravamo già in macchina. "Cosa si può fare o cosa si può vedere in
Tropea, se oggi pioverà tutto il giorno? " - mi domandò - prima di scendere,
davanti al monumentale cancello dell’ hotel. " Se non hai paura di
un
ragazzo calabrese, ti mostrerò la Calabria all’ interno". Mi guardò pensierosa,
ma non titubante, perché con la testa annuiva. " Aspetto te, qua, alle due di
dopo mangiato", e scese di corsa. Attraversò lo spiazzale lastricato, tra il
cancello e la bellissima entrata di vetro, e sparí dietro un luccichío
di cristalli. Quella giornata, senza programmi, cominciava con un programma che
io non avevo programmato. " Cosa le farò vedere?" - mi torturavo. Pensai ai
castelli di Pizzo e di Vibo Valentia; pensai a Serra
San Bruno e alla sua Certosa; pensai a Gerace e alla sua cattedrale maestosa,
alle sue stradine normanne; pensai a Stilo, alla sua Cattolica; pensai a
Reggio Calabria, al museo. Fino alle due ero in uno stato d’ansia. Alle due lei
era già davanti al cancello, con una maglietta rossa e una gonna di jeans sulle
gambe rosate da una leggera abbronzatura. Le aprii la portiera e mi salutò
"ciao", sedendosi e piegandosi su di un fianco per appoggiare uno zainetto sul
sedile posteriore. " Si parte!". Imboccai la strada per Santa Domenica di Ricadi
e, all’ uscita del paese, svoltai a sinistra, verso Ciaramiti. Quando, dopo le
prime curve, la salita cominciò dolcemente a portarci in alto verso il cielo,
che intanto apriva squarci di azzurro, lei osservava il mare e, all'’orizzonte,
le sagome delle isole Eolie, nitide, dopo la pioggia. " Bello panorama" - disse
- ad alta voce. Io me ne compiacevo. Prima di Brattirò, un piccolo altipiano
d’un verde vivo, mostrava vigneti ed alberi da frutta. Mi fermai vicino ad un
gelso; scesi dall’auto e, con due salti, mi arrampicai tra le more grosse e
bianche. Lei era già sotto l’albero, meravigliata. Raccolsi un pugno di more e,
con un altro salto, fui giù a porgergliele. Se ne portò una in bocca e chiuse
gli occhi, assaporandone la dolcezza. " Non ho mai mangiato queste : cosa
sono?". "
More di gelso. Questi alberi sono stati piantati per l’allevamento
del baco da seta - cercai di spiegare -. Come ti chiami?" - le chiesi - "
Agnese". " Io mi chiamo Pasquale". Lei rideva con gli occhi e mi guardava come
un eroe, per quei salti sull’ albero. Tra Brattirò e Caria mi fermai ad un
abbeveratoio per lavarmi le mani e, poco distante, scorsi un albero di fichi
neri, i primi della stagione. Piegai un ramo e ne raccolsi uno per lei. " Gut!
Calabria è paradiso terrestre" - esclamò - , mentre lo gustava. Attraversammo
Caria con le sue case rurali, basse e allineate come in un paesino del Messico.
Sull’altipiano del Poro rimase estasiata. " Mi sembra di essere in aereo" –
diceva -. Quel giorno le nuvole erano basse e vagavano a contatto con la terra.
Non era la nebbia, ma nuvole vere che noi attraversavamo, come fossimo su un
aereo. Mi meravigliai io stesso per quel fenomeno che, poi scoprii, non è raro
su monte Poro. Quelle nuvole si spostavano da ovest a
est, come fantasmi di giganti; lasciavano il nostro cielo e andavano ad
accumularsi sulle cime dei monti più alti, che già apparivano con le bianche
macchie dei paesi aggrappati e le case aggruppate, piccoli paesi di Calabria
rimasta vergine, lontana dal progresso. Eravamo tra le nuvole. Arrivati a Vibo
Valentia e, attraversata l’aristocratica cittadina, mi infilai nei vicoli dei
nobili e sbucai, salendo, nel punto più alto, sotto l’imponente castello. Il
territorio dominato era particolare per il verde e la limpidezza dei luoghi. Si
apriva al nostro sguardo una vasta distesa di ulivi antichi e macchie più chiare
di vigneti che portavano al cuore la voce dello spazio. Scendemmo dalla
torre,
tenendoci per mano. Il tratto che separa Vibo Valentia da Piscopio e San
Gregorio era l’inizio di quell’immensa vallata che dal castello avevamo
dominato. Ora c’eravamo dentro, tra tronchi contorti e avviluppati di uliveti,
alberi d’agrumi e di mandorle. Confini di giuggiole, di fichi d’india e di
canneti dividevano le proprietà. Piscopio, San Gregorio d’Ippona, Sant’angelo di
Gerocarne, Dasà, Arena e i ruderi di un altro castello. Era un susseguirsi di
campi e di orti, di case di terra, di paesi con le galline sulle strade e nelle
piazze, di vecchi in fustagno e di donne vestite di nero, vicino a giovani
all’ultimo grido della moda. La giovane tedesca era incantata nel notare come
una Calabria moderna conviveva con una Calabria di tutte le epoche. La Certosa,
con la sua austerità, era circondata da un silenzio religioso, da faggeti e
abetaie. Ci sedemmo in un rustico ristorante di legno. Mangiammo funghi freschi,
appena raccolti , in quel fine giugno, umido come un autunno. Io mi davo da fare
per perfezionare il mio tedesco e lei per imparare meglio l’italiano. Poco
distante dalla Certosa vi è Mongiana, un piccolo centro che ospita anche la sede
della Guardia Forestale del parco nazionale delle Serre. A Mongiana visitammo la
fabbrica delle armi dei Borboni e la fattoria della Ferdinandea, dove i Borboni
alloggiavano durante le loro stagioni venatorie. Si respirava aria di un passato
ancora vivo, fatto di re, guerrieri e contadini. Cominciava intanto a fare buio
ed io volli fare l’avventuriero. Mi diressi verso Fabrizia, in località " Faggio
del re", ed imboccai una strada di terra battuta tra quei boschi di faggi e di
abeti, fitti ed interminabili. Ci sembrava di essere in Canada. Il folto di
quelle cime oscurava il sole e la sera era giunta in anticipo. Lei tratteneva il
respiro e, dopo un bel po’, forse preoccupata, mi domandò :
"Sei
sicuro di conoscere questa strada?". "Siamo tra due mari: lo Ionio e il Tirreno"
- dissi - divertendomi. "Ora scendiamo verso quello di destra". Ed allargai il
braccio destro. Quella strada, non asfaltata, e quelle cime alte, quei tronchi
tra i quali lampeggiavano migliaia di lucciole, le avevano messo paura. " Stai
tranquilla. Questa è una scorciatoia. Qua la chiamano "la strada della
speranza", ed io la conosco bene". La discesa era dolce, lungo le pendici di
quel vasto bosco. Dopo circa venti minuti eravamo in pianura. Il bosco era
sempre fitto ed un torrente rumoroso frenava la sua corsa tra massi di granito
che spezzavano con bagliori le ombre. Lo attraversammo su un massiccio ponte di
legno. Le luci di un paesino improvviso e la strada asfaltata le fecero tornare
il sorriso ai lati delle labbra e negli occhi. Il bosco era alle spalle. "Avevo
avuto un po’ paura" - mi confessò -. Eravamo giunti a Piani di Acquaro, un altro
vasto altipiano, più piccolo di quello di monte Poro, ma suggestivo per le
lucciole che continuavano a circondarci e che si confondevano con le luci
piccole dei paesini sparsi per quelle vallate che si stendevano da ogni lato.
"La Calabria è fatta a terrazzi, terrazzi sul mare" e mostravo davanti a me
quella distesa e, più avanti, netta nel cielo chiaro, senza più nuvole, quella
di monte Poro. "Là dietro c’è il mare di questa mattina, dove noi ci siamo
incontrati". Si distinguevano già le stelle. "E’ tutto molto bello" - affermò -
sottovoce. Da Piani di Acquaro scendemmo ad Acquaro e da Acquaro a Dasà.
Lucciole, stelle, canti di grilli e di rane, dalle pozzanghere ai lati. Il
ritorno : Dasà, Sant’Angelo di Gerocarne,
Francica, monte Poro, fu tranquillo e rilassante. Di colpo apparve di nuovo
Tropea, vista di notte e dall’alto, non più da Ciaramiti, ma dalle colline di
Drapia. L’accompagnai al suo hotel. Lei rimase a Tropea per una settimana ancora
e diventammo amici. Da anni torna spesso a passare le vacanze quaggiù. Da allora
ha portato in questi luoghi decine di turisti tedeschi. Ora io sono più vecchio.
Lei anche. Tropea è un po’ cambiata, ma la Calabria, in quei luoghi di terrazzi
sul mare, è rimasta cosi’ come io l’ho vista quel giorno, attraverso gli occhi e
l’animo di una giovane tedesca. Ogniqualvolta vado su quei monti per funghi, per
fragole o per accompagnare gruppi di amici o di turisti, mi sembra che il tempo
non abbia ancora scoperto quelle strade.
|
|
||