Rubrica quotidiana a cura di P. Salvatore Brugnano
Storie belle… per vivere meglio
Quando l’amore si fa cura.
La vicenda della morte di un cerebroleso da 31 anni, avvenuta il 25 agosto 2019, ha dimostrato che l’amore che si fa cura è più forte del tempo. Non può sconfiggere la morte, ma fa affrontare dignitosamente la vita.
– Tra le notizie del torrido agosto italiano 2019, dominate dalla crisi politica, è passata sotto traccia la morte di “Cito”, come era chiamato Ignazio Okamoto, un paziente dalle origini giapponesi ma cresciuto nel Bresciano, a Collebeato. È rimasto nello stato neurologico cronico chiamato “vegetativo” per più di 31 anni, da quando uscì dal coma provocato dalla grave lesione cerebrale subìta in un incidente stradale sull’A22 nella notte tra il 19 e il 20 marzo 1988, quando aveva 22 anni.
– E’ deceduto per morte spontanea nel suo letto di casa all’età di 54 anni, come esito naturale del lungo decorso clinico, circondato dall’affetto dei suoi genitori Marina e Hector. – La vicenda insegna soprattutto che ancora oggi è da valutare seriamente la cultura della vita, contro la “cultura dello scarto” della vita.
L’incidente fatale nel 1988.
♦ Ignazio “Cito” aveva 22 anni quando la Golf su cui viaggiava insieme ad altri 4 amici bresciani uscì di strada. L’impatto violentissimo fu sulla A22, all’altezza di Nogarole Rocca (Verona). Nell’incidente perse la vita, sul colpo, Nicola Luigi Mori, 22 anni di Lumezzane. Gli altri tre ragazzi si salvarono, mentre Ignazio fu portato in ospedale in coma, dal quale non si è mai ripreso.
Dopo 31 anni in stato vegetativo, accudito dai genitori nella casa di famiglia a Collebeato (Brescia), il suo cuore ha smesso di battere. Il papà, Hector Okamoto, messicano di origine giapponese, dopo l’incidente nella notte fra il 19 e il 20 marzo 1988 ha dedicato tutta la sua vita al figlio.
La morte in agosto 2019.
“Cito”, come era chiamato Ignazio Okamoto, il 25 agosto 2019 è deceduto per morte spontanea nel suo letto di casa all’età di 54 anni, come esito naturale del lungo decorso clinico, circondato dall’affetto dei suoi genitori Marina e Hector.
– Essi stessi lo hanno accudito a domicilio, con semplici cure fisiologiche (nessuna terapia specifica per la sua patologia è disponibile), praticate in accordo con il medico e l’infermiere, e soprattutto con tanto, tanto amore, infinita pazienza e certa speranza nel bene tenace della sua vita. Sempre, anche nella sofferenza fisica e spirituale che ha seguito il trauma cranico e lo ha accompagnato per oltre tre decenni.
Il lungo cammino dell’amore.
♥ Dopo due anni di ricovero in un centro sanitario specializzato, i genitori avevano scelto di riportare Ignazio a casa.
Papà Hector decide di lasciare il lavoro e dedicarsi, insieme a Marina, al «servizio» – così lo ha chiamato la mamma – della vita di loro figlio.
Con la consulenza professionale, l’aiuto domiciliare di periodici controlli medici e una rete locale di sostegno, ce l’hanno fatta – senza drammi, tensioni con i sanitari o contenziosi giudiziari – per 29 lunghi anni.
– Si poteva fare. E si doveva tentare di fare.
Certo, con la dedizione incondizionata di persone care, in questo caso una madre e un padre, quella che non misura la “qualità della vita” di un figlio, ma la “qualità dell’amore” verso di lui.
♦ Senza imboccare scorciatoie cieche che portano il nome di diverse forme di eutanasia (da quella omissiva di idratazione e nutrizione, a quella commissiva), ma obbediscono tutte alla non-logica della «falsa pietà» (san Giovanni Paolo II) e di una «cultura dello scarto» (papa Francesco).
♥ La logica dell’amore per la vita sa fare “miracoli”, scavalca montagne, e non si arrende se non di fronte all’inevitabile sopraggiungere della morte per cause naturali, quando Dio chiama e non quando l’uomo vuole. E così è stato per “Cito”.
Cosa può insegnare la vicenda umana di Ignazio e della sua famiglia?
Almeno tre cose.
1. Lo “stato vegetativo persistente”, quello di “coscienza minima” e altri esiti clinici dei comi traumatici, post-anossici, metabolici e di causa diversa non sono quelli di un paziente “terminale” o agonico, per il quale ha senso clinico e valore etico prendere in considerazione la sospensione di cure fino a quel momento applicate, perché ormai inappropriate per mancanza di beneficio per il malato.
Questi pazienti cerebrolesi sono stabilizzati e la loro vita, con le cure fisiologiche ordinarie (idratazione, nutrizione, igiene del corpo, prevenzione delle lesioni cutanee e altro), può continuare per decenni. Si ricordano, tra gli altri, i casi dell’infermiera indiana Aruna Shanbaug, morta nel 2015 a 67 anni dopo 42 di stato vegetativo, e del calciatore della Nazionale francese Jean-Pierre Adams, 71 anni, in condizioni simili da 37 e tuttora vivo.
2. Una seconda osservazione. Per assistere questi malati cronici non servono necessariamente strutture di ricovero costose, con posti letto limitati. La maggior parte trova adeguata assistenza a domicilio, se i loro cari o amici sono messi nelle condizioni di poterla praticare. Condizioni meno onerose per il Sistema sanitario di molti altri interventi per la salute dei cittadini.
3. Infine, per l’accoglienza e la cura di questi pazienti sono decisive una cultura e una politica sanitaria che non incoraggino né assecondino le scelte eutanasiche di pochi parenti o tutori ma le disincentivino, negando copertura ad azioni contrarie alla deontologia professionale di medici e infermieri e al bene personale e sociale che è la vita umana di qualunque cittadino in qualunque condizione, al medesimo tempo promuovendo e sostenendo concretamente scelte a tutela della vita e dell’autentica dignità di tutti.
(fonte: cf. Avvenire.it lunedì 26 agosto 2019).