Fede e dintorni

Nessuno deve morire da solo

Rubrica quotidiana a cura di P. Salvatore Brugnano

Storie belle… per vivere meglio

Nessuno deve morire da solo.

– Parlano i cappellani nei reparti Covid degli Ospedali che sfidano il contagio per i fratelli: «Nessuno muore da solo, noi ci siamo».
– La paura di morire da soli, senza una persona cara accanto. La consolazione di ricevere una carezza, o un sorriso, almeno con lo sguardo. I cappellani degli ospedali, da quando è iniziata la pandemia, di persone morte per Covid ne hanno viste tante, troppe.
– Ed essi ci sono, rispondendo alla vocazione professionale e religiosa, o semplicemente personale, ad esporre la propria vita per gli altri.
– Essi, come tanti altri, non si sottraggono al rischio che ciò comporta. Stanno lì per un senso del dovere animato dall’amore che è più forte della paura.  – Già nei primi mesi della pandemia lo straordinario esempio di chi si mise al servizio dei malati di coronavirus scosse la sensibilità della gente comune, che manifestò la sua riconoscenza per questi “eroi” o “santi della porta accanto”, come li ha chiamati Papa Francesco. Ora che il virus è ritornato con una nuova e maligna ondata, ascoltare le loro impressioni provate a “stare accanto a chi era solo” nel morire, ridà un senso di umanità rinnovata.

Ora che il numero dei contagi è tornato ad aumentare con la nuova ondata e i malati ritornano ad affollano le terapie intensive, i cappellani Covid in mezzo a tutto questo dolore vogliono esserci ancora, anche se rischiano il contagio. Perché a quel dolore bisogna dare una risposta, una consolazione. E nei momenti di sofferenza e angoscia ci si può afferrare solo alla prossimità di Dio, che passa per il loro tramite.
Cosa stiamo imparando dall’irruzione della morte per effetto del virus?
Le loro risposte possono orientare le nostre scelte di umanità.

1. Don Luca Casarosa, cappellano del Nuovo ospedale Santa Chiara di Pisa Cisanello, da marzo a oggi di persone poi morte per Covid ne ha accompagnate più di 130. Anche giovani. «Sono stato con loro fino alla fine dando a tutti benedizione e preghiera, ho coinvolto medici e infermieri, ho fatto da ponte con i familiari, li ho coinvolti per telefono, li ho benedetti.
Ma non è stato facile. Vedi tutti quei malati soffrire così tanto, la maggior parte intubati, mentre si lamentano che gli manca l’aria».
Eppure don Luca non si è mai tirato indietro, con il suo stile. «In quei momenti devi imparare a stare zitto, a pregare e soffrire con loro, in silenzio».
Ma non è facile quando ti ritrovi in rianimazione con 60 persone tra la vita e la morte. Sapendo che alla fine qualcuno non ce la farà. «È dura, ma ci diamo sostegno, stando tutti insieme, medici e infermieri, nei momenti di dialogo; abbiamo creato un rapporto grande, di fraternità».

2. Anche don Paolo Mulas, cappellano dell’Azienda ospedaliera universitaria di Sassari, non smette di stare accanto ai malati di Covid.
Indossa la bardatura, la mascherina e via, tra i letti, a raccogliere sfoghi e domande.
«La nostra presenza è un segno di quel prendersi cura, di quella vicinanza a coloro che si trovano ad affrontare malattia e morte, soli anche nel fine vita. Cerchiamo di sconfiggere innanzitutto la paura del soffrire e del morire».
Perché ormai chi si ammala presagisce le conseguenze della malattia, soprattutto se si trova intubato, e osserva tutto con lo sguardo disorientato, in cerca di conforto.
«Ora c’è maggiore consapevolezza, c’è la paura della morte, della sofferenza, della solitudine, e poi del dolore». Come quello che si prova a vedere le stanze affollate di malati di qualsiasi età, immobili.
«In qualche modo cerchiamo di preparare anche le famiglie. Mi sento con loro sia al momento del ricovero che quando poi qualcuno di loro muore. Provo a fargli capire che non erano da soli, che non hanno sofferto. Ma c’è lo strazio di non aver dato un’ultima carezza.
Per questo, la nostra non è solo un’opera di misericordia spirituale ma un gesto che facciamo a nome della famiglia. È una morte in solitudine, certo, ma non senza speranza. Molti ricevono la Comunione, hanno un accompagnamento spirituale».

3. Don Marco Galante, cappellano dell’Ospedale di Schiavonia, a Monselice in provincia di Padova, dove è morto il primo paziente Covid in Italia il 21 febbraio riconosce: «È un’esperienza dura, impegnativa. A volte subentra anche un senso di impotenza, come quando un paziente ti chiede un po’ d’aria e non sai come aiutarlo. Un bicchiere d’acqua sai dove prenderlo, ma se gli manca l’aria e attendono di essere intubati?».
E poi c’è il dolore delle famiglie. Che per tutto il tempo non trovano pace.
«La distanza dalle persone care, che non riescono nemmeno a salutare prima di morire, è il peso più grande. Ho cercato di stargli vicino, di portare consolazione».

4. Don Isidoro Mercuri Giovinazzo, cappellano dell’Azienda ospedaliera della Valle d’Aosta, Ospedale Beauregard e Parini, e direttore dell’Ufficio di Pastorale della salute della diocesi di Aosta dice: «Anche nell’ordinarietà ci si è sempre presi cura degli inguaribili. Con lo sguardo nascosto dalle maschere di ossigeno e dalle pompe di infusione dei farmaci che sbucano da ogni parte, ci chiedono di essere riconosciuti nella loro dignità di persone, nella condizione umana. Ogni giorno impariamo che accompagnare alla morte terrena significa accompagnare alla beatitudine un’anima che si apre a Dio».

5. Rimarca Padre Angelo Gatto, cappellano dell’Ospedale di Terni: «Per le famiglie dei malati di Covid sapere che i propri cari erano accompagnati e seguiti da un sacerdote è sempre una grande consolazione. I parenti hanno vissuto esperienze difficili, traumatiche, ma sapere che c’era qualcuno che pregava per loro e che stava accanto ai propri cari per portare una carezza e un sorriso gli dava sollievo. Ora i parenti sanno che c’è qualcuno che fa da portavoce del loro amore, dell’affetto che non possono più manifestare da vicino».

6. Racconta Don Nunzio Currao, assistente pastorale del personale del Policlinico Gemelli di Roma: «Ormai si sono dovuti richiudere i reparti, i parenti non possono entrare, i pazienti Covid vivono di nuovo nella solitudine. Per questo si cerca di potenziare la presenza del personale medico infermieristico, o più in generale degli operatori sanitari, perché stiano accanto ai malati». Lo fanno, senza risparmiarsi.
Ma può capitare che di fronte a un giovane morto, magari coetaneo dello specializzando che l’ha in cura, lo sconforto prenda il sopravvento. Il dolore lascia tutti attoniti: Allora cerco di confortarli , preghiamo insieme. Ho con loro una presenza continua, quotidiana, fatta di silenzio, di sguardi. Tutti alla fine trovano questa modalità di grande supporto per assistere i malati». Fino alla fine.

(fonte: cf Avvenire.it, 31 ottobre 2020).

Medici morti nel corso dell’epidemia di Covid-19; gli infermieri; sacerdoti. – Nel dolore e nelle tragedie di questi mesi di pandemia questo fatto si è imposto alla nostra attenzione e pur aggiungendo dolore a dolore è diventato fonte di ammirazione, e alla fine, di conforto. L’esempio dei medici, degli infermieri ed infermiere, dei sacerdoti, e di chi si è messo al servizio dei malati, disponibile anche a dare la vita, è diventata una lezione importante di umanità che questo tempo di sofferenza ci lascia: “Cosa stiamo imparando dall’irruzione della morte per effetto del virus? – Da sempre la vicenda di San Massimiliano Kolbe, che nel lager di Auschwitz scambiò la sua vita con quella di un altro prigioniero padre di figli, suscita generosa imitazione.

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