Il romanzo dello scrittore svedese pubblicato nel 1999
L’autore e drammaturgo svedese Per Olov Enquist è scomparso il 25 aprile scorso dopo una lunga malattia, aveva problemi cardiaci. Era nato a Skellefteå nel Västerbotten, estremo nord della Svezia, nel 1934: aveva 86 anni
«Il 5 aprile 1768 Johann Friedrich Struensee fu assunto quale medico personale del re di Danimarca Cristiano VII, e quattro anni più tardi fu giustiziato». Questo l’incipit del romanzo Il medico di corte dello scrittore svedese Per Olov Enquist e, in sostanza, l’estrema sintesi delle sue poco più 400 pagine. La travolgente storia narrata da Enquist sviluppa una tesi profonda e interessantissima che è una lunga risposta ad una domanda a dir poco semplice. Prima, però, di immergerci in questo livello di analisi del romanzo, due parole su ciò che emerge dalla squisita sintassi di Enquist e dal modo più unico che raro di porre il lettore al centro della vicenda senza troppi preamboli, quasi di sorpresa, come in un gioco. Ammetto che non mi sarei stupito se questo finissimo e apparentemente modesto artigiano della parola avesse vinto il Nobel. Il suo “Medico di corte” è un’opera complessa, architettata in maniera nitida, che non ha nulla da invidiare ai tanti capolavori della letteratura mondiale del Novecento. Ciò che mi ha più impressionato del romanzo è che Enquist non dà mai spazio al dubbio, il lettore non ha il tempo di riflettere, di crearsi l’attesa, di immaginarsi altre possibili soluzioni da ciò che egli racconta. Il romanzo è scevro di punti morti, di zone d’ombra. Se la corte è un luogo di misteri, il racconto non lo è affatto. È come se nella vicenda lo scrittore ci tenesse ad essere chiaro, e quando non si mostra come vorrebbe diventa incredibilmente esplicito, appunto senza lasciare alcuna traccia al lettore che viene subito bloccato nei suoi voli pindarici sulle possibili conseguenze di una determinata azione di un personaggio. Della serie: il lettore non deve immaginare, il lettore deve leggere e fidarsi di chi scrive. Perché chi racconta la storia non è direttamente implicato nella vicenda, bensì ha semplicemente raccolto il materiale “storico” (molte riflessioni, testimonianze, impressioni dei personaggi dell’epoca sono virgolettate e provengono, da quanto ci dice il narratore, da documenti ufficiali). Altra caratteristica che considero interessante dell’opera, strettamente legata alla chiarezza espressiva, è l’uso di periodi semplici e isolati, che forniscono al lettore un ragguaglio degli eventi e riavvolgono il filo della trama, prima di lanciarsi nella storia con dialoghi e subordinate, sempre costruiti in modo nitido, e che non stancano. Il romanzo stupisce perché riesce a celare fino alla fine la sua potenza, abbracciando l’illusione della semplicità e il piacere della lettura.
Ritorniamo ora a quella semplice domanda a cui abbiamo fatto riferimento sopra, e al significato simbolico del romanzo, o almeno a come l’ho inteso io nella sua complessità, come l’ho interpretato io. Naturalmente, l’opera sviluppa tante tematiche comuni a molte opere: l’amore, l’amicizia, la ricchezza, la morte, il tradimento, la bellezza, l’invidia, la gelosia, il coraggio, le passioni, la malattia, il pregiudizio, l’inganno, la poesia, il lavoro, gli ideali, la forza eccetera. Ma queste tematiche, questi argomenti che sono il pane per chi fa letteratura, qui vengono sicuramente sviluppati ma cedono il passo a quello che è evidentemente l’argomento principe dell’opera: il potere. La domanda che dobbiamo porci quindi è: “Che cos’è il potere?” La risposta, per quel che può dire un romanzo, è esaustiva perché affronta il “problema” da più punti di vista, e ne fa emergere le tante sfaccettature. Quindi un romanzo sul potere; un’opera su chi gestisce il potere, su chi subisce il potere, su chi ha sete di potere, chi per il potere farebbe di tutto, chi non capisce il potere, chi si lascia trascinare dal potere, chi non sa gestire il potere, eccetera eccetera.
Il medico di Altona, Struensee, arriva in modo del tutto casuale alla corte del re demente Cristiano VII di Danimarca. Da qui, come abbiamo già detto, prende il via la vicenda. Struensee è un medico imbevuto di idee illuministe e rivoluzionarie. Il suo compito prima di arrivare a corte era quello di curare i poveri, gli ultimi. Si trova dunque catapultato in un mondo che non è il suo. Si guadagna, però, la completa fiducia del re, e non ci mette molto a diventare l’amante della giovane regina. Ma Struensee è e rimane un uomo del popolo, sensibile alle esigenze della gente comune. Con seicentotrentadue decreti anticipa la Rivoluzione francese e quei quattro anni verranno ricordati in futuro come “Il tempo di Struensee”. La storia, però, si ripeterà nel suo cinico gioco politico, negli intrighi di palazzo, e il medico di corte sarà fermato sul più bello. Sopravvivranno le sue idee, le idee di un intellettuale ignaro dei giochi di potere. In fondo Struensee è un uomo buono, sensibile e fino alla fine non riesce a vedere il male che lo circonda. Dovremmo trovarci di fronte un uomo cinico, calcolatore, freddo; invece il potere non lo trasforma. Struensee è un ingenuo, «il suo cuore era troppo puro. I puri d cuore erano condannati a perire».
L’adolescente regina Caroline Mathilde, sua amante, capisce che Struensee sogna una società buona, basata sulla giustizia e sulla ragione. Lei gli fa notare che «doveva scegliersi i suoi nemici». Gli presenta una lista di persone che vuole licenziare: «la lista non era dettata dall’odio, o dalla gelosia. Aveva fatto una valutazione della struttura del potere». Ma Struensee non sa dividere i nemici, lui non ha un piano ben preciso, non dà importanza al “grande gioco”, non è in grado di gestire il potere. È un medico, un intellettuale che non è adatto all’azione. Caroline Mathilde è conscia del potere e saprebbe usarlo con efficace lucidità; e quando ormai Struensee è in prigione e le loro esistenze stanno prendendo una brutta piega, le sue riflessioni colpiscono per la straordinaria lucidità e sono tra le pagine più affascinanti del romanzo. La regina, che il suo potere non l’ha mai potuto imporre direttamente per come avrebbe voluto, che ha vissuto una relazione amorosa col medico di corte, scava nel proprio intimo come un lettore che vuole riassumere e dare un senso alle vicende appena lette. Fa queste riflessioni, la regina, sul conto dell’amante: «[…] Nel fondo di se stesso, aveva sempre avuto paura. Lei l’aveva visto. E neppure amava esercitare il potere. Questo lei non lo capiva. Da parte sua, non aveva in realtà provato gioia quando per la prima volta aveva capito di poter infondere paura? Ma lui no. C’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato, in lui. Perché venivano sempre scelte persone sbagliate per fare il bene? Dio non poteva essere il responsabile. Doveva essere il Diavolo a scegliere gli strumenti del bene. E sceglieva i nobili d’animo, che sapevano provare paura. E se questi buoni non erano in grado di uccidere e distruggere, allora il bene restava senza difesa. Che orrore. Era davvero necessario che fosse così? Era forse lei stessa, che non conosceva la paura, che amava esercitare il potere, che gioiva nel vedere che avevano paura di lei, erano forse le persone come lei che avrebbero dovuto realizzare la rivoluzione danese? […] Era il malvagio, lo sciocco, quello che non aveva paura, il vincitore. Come si poteva vincere il mondo se si era soltanto buoni, se non si aveva il coraggio di essere cattivi? […] Perché doveva amare proprio Struensee, quando i buoni erano condannati a soccombere, e quelli che non provavano paura dovevano vincere?».
Un altro personaggio importante del romanzo è la regina madre, che è mossa dal segreto intento di destituire Cristiano e mettere sul torno il proprio figlio, il fratellastro del re, un altro debole di mente. Naturalmente la regina madre non vuole perdere il “potere”, e si serve di un oscuro personaggio di corte per riuscire nell’intento: Guldberg. Figlio di un impresario di pompe funebri di Horsens, Guldberg era stato assunto dalla regina madre come precettore del principe ereditario, dopo che ebbe letto e apprezzato il suo saggio sul Paradiso perduto di Milton. Lui, Guldberg, il suo paradiso se l’era guadagnato, non l’aveva ereditato, bensì l’aveva conquistato. “Guldberg era alto un metro e quarantotto, la sua pelle era grigia e precocemente invecchiata, fitta di piccole rughe comparse fin da giovane età. Sembrava precocemente trasformato in un vecchio; da qui il disprezzo e il disinteresse di cui dapprima fu oggetto, e più tardi la paura che ispirò”. Era insignificante nell’aspetto: “Durante la rivoluzione danese, era stato protetto dalla sua aria insignificante. I personaggi importanti sparirono, si annientarono a vicenda. Restò Guldberg, l’insigificante”. Dato che i medici non sapevano spiegare il suo invecchiamento precoce, lui li disprezzava. E Struensee era un medico, il medico di corte. Sarà proprio Guldberg, basso e brutto, a sottrarre il “potere” all’alto e bello medico Struensee. Guldberg non era tipo da confondere ragione e sentimento, perché gli illuministi parlavano “di luce. Di fiaccole nelle tenebre. Ma le loro fiaccole non generavano che tenebre”. In quei quattro anni il medico di Altona anticiperà in Danimarca la Rivoluzione francese, e poi seguiranno i dodici anni del “tempo di Guldberg”. Struensee e Guldberg: l’intellettuale, l’uomo pieno di sentimenti, di passioni, e dall’altro lato il politico freddo, cinico, che sapeva dominarsi, con gli occhi grigi e senza cuore. Il medico illuminista e il figlio del becchino. Guldberg sopravvivrà a Struensee, ma le idee del medico di corte non moriranno con lui, perché “i trentamila non avevano salutato la testa mozzata con un’esplosone di gioia. Erano fuggiti, correndo, inciampando, trascinando i bambini, lontano dal patibolo che era avvolto in una pioggia sempre più fitta. Non volevano più vedere. Qualcosa era andato storto. Guldberg rimaneva immobile nella sua carrozza, ben protetto. […] E per la prima volta si sentì incapace di interpretare i gorghi della corrente. Cosa c’era nelle loro menti? Il tempo di Struensee non era dunque finito? […] Era rimasto qualcosa, che non si era potuto recidere”. Romanzo di rara bellezza, una storia che parla all’anima, una vicenda narrata con una maestria da premio Nobel. Il capolavoro di Enquist è un caleidoscopio di emozioni, una vicenda che ci accompagna nell’intimo dell’agire umano. Più che leggerla quest’opera andrebbe studiata. Quattrocento pagine leggerissime e magiche. Un classico senza tempo, il lettore può correre il rischio di amarlo. Stiamo parlando di uno di quei romanzi indispensabili, un libro per chi cerca emozioni forti, un pilastro della letteratura del XX secolo.