Un racconto breve di Alessandro Stella
Il rubinetto continuava a gocciolare, scandendo un ritmo molesto in quella mente annebbiata. Il suono costante era inarrestabile.
In realtà avrebbe potuto bloccarlo, se solo avesse capito cosa fosse.
La puzza delle sigarette spente nel posacenere lo raggiunse al cambio di posizione, fornendogli un quadro approssimativo della situazione. Si coprì il volto con il cuscino, cercando di allontanare il tanfo e il mal di testa che lo tormentavano da ore.
Restò ancora qualche secondo in quella posizione, finché non decise, con un colpo di reni, di alzarsi da quel letto maleodorante. Fece in tempo a raggiungere il bagno: il conato fu incontenibile, tracce di vomito segnarono il tappetino sagomato ai piedi del water, la puzza di rum inacidito si espanse nel resto del monolocale. Un paio di colpi di tosse chiusero il discorso iniziato qualche ora prima, davanti alla bottiglia acquistata al discount di via Arenula.
Manuel rientrò in soggiorno, dove il divano letto, perennemente sfatto, lo accolse di nuovo fra le lenzuola sudice. Con un gesto istintivo accese la tv, posizionandosi sul canale all news, in attesa degli ultimi aggiornamenti.
Le immagini di devastazione le conosceva ormai a memoria, passavano da ore, sin dalla sera precedente. Con cadenze di circa mezz’ora si aggiungevano nuovi particolari, il bilancio delle vittime cresceva e i filmati inediti, girati con ringphone di ultima generazione, si aggiungevano ai precedenti.
L’ultimo ad essere trasmesso riprendeva il drone mentre esplodeva al quarto piano di un palazzo pieno di civili, dopo averlo raggiunto volando per una decina di metri.
Quella non era più una guerra santa, non si uccideva più in nome di Allah, di Dio o chi per lui. Era una guerra profana, empia, come tutte le guerre. Ad ogni attacco della West Alliance in oriente, corrispondeva una risposta della Milizia della Mezzaluna in occidente, nei centri più popolosi, sempre rivolta ai civili, mai ad obiettivi politici o militari. Ogni azione della WA in Iraq, Turchia ed Oman veniva sottaciuta dai media main stream in Europa e America. I più fortunati riuscivano ad avere notizie solo grazie alla rete darknet Nibiru, indecifrabile dalle autorità e destinata solo a pochi esperti.
Manuel fu costretto a chiudere nuovamente gli occhi, colpito dai flash dell’esplosione trasmessa in tv.
I kamikaze erano solo un ricordo sbiadito.
Prima del giro di vite della WA, l’ultimo a raggiungere le vergini in paradiso era stato Ahmed Al Saahir, l’8 dicembre 2019, nella metropolitana di Roma, linea A, fermata Ottaviano-San Pietro.
Centocinquattotto morti, trecentododici feriti.
Quei numeri Manuel li conosceva bene, andavano a trovarlo tutte le notti, gli facevano visita, instancabili, imperterriti. Il volto ustionato di Francesca e il corpicino straziato di Sofia lo tormentavano tutte le volte in cui il rum non gli formattava il cervello, per riprogrammarlo al risveglio con ricordi ancora più vivi e nitidi.
Si buttò sul letto, gambe incrociate, spalle poggiate alla testiera. Esitò qualche secondo, rigirandosi tra le mani la sigaretta comprata al mercato nero. Poi la accese, fece il primo tiro profondo, sentendo pulsare le tempie con maggiore violenza. Il fumo aveva già invaso il monolocale, raggiungendo la pila di piatti sporchi nel lavandino. Dal comodino prese il piccolo motore cilindrico, lo avviò per testarne la potenza due, tre, quattro volte, con gesti meccanici, utili a stemperare la tensione crescente. Si gustò gli ultimi tiri di nicotina e, rialzatosi, lanciò uno sguardo alla cornice elettronica su cui passavano le foto di tre anni prima, il quinto compleanno di Sofia. Preso in mano il piccolo schermo da dodici pollici, sottile come il vetro di una finestra, bloccò le slide su una sua foto in primo piano: in soli tre anni il volto si era riempito di rughe, un ciuffo di capelli grigi, contrastanti con il nero di base, aveva fatto la sua comparsa, donandogli un aspetto trasandato e mesto. Il girovita informe aveva cancellato le ore passate ad allenarsi nella palestra della questura, i solchi sulla fronte avevano visto scorrere fiumi di sofferenza, oltre che di rum dozzinale.
Il ringphone vibrò, proiettando sul palmo della mano l’immagine di un uomo barbuto sulla cinquantina, fronte aggrottata, labbra carnose, occhi neri e vispi come un ratto.
«Ci siamo?», chiese Manuel, non appena rispose.
L’uomo non parlò, accennò solo un movimento affermativo del capo. Il palmo della mano si chiuse, facendo cadere la chiamata.
Si vestì lentamente, come se stesse seguendo un rituale: indossò il giubbotto antiproiettile, la maglia termica, i pantaloni e la giacca impermeabile, completando la vestizione con pesanti anfibi neri alla caviglia e un berretto con lo stemma della Gendarmeria Europea.
L’aria di fuori era gelida, una folata di tramontana gli tagliò il volto, provocandogli un brivido che lo percorse fino ai talloni. Il vapore usciva in abbondanza dalle narici, dando vita a piccole nuvole destinate a dissolversi nell’oscurità.
Verso est una leggera luce rossiccia indicava l’approssimarsi dell’alba nel cielo pulito dal freddo. Il latrato di un cane ruppe il silenzio che avvolgeva l’aria glaciale.
Manuel prese a camminare, stringendo i due piccoli motori nascosti in tasca. Percorse trecento metri, rallentando di fronte ad una pattuglia intenta a far rispettare il coprifuoco. Salutò i colleghi con un suono gutturale, somigliante ad un grugnito, e continuò il cammino, ingobbito dal freddo, fino ad una piccola porta in ferro ricavata in una nicchia del palazzo di mattoni rossi.
La punta degli anfibi bussò tre volte, gli occhi da ratto comparvero e scomparvero in un secondo da una piccola feritoia nella porta, apertasi subito dopo con uno scatto elettrico.
Manuel si incurvò ulteriormente, prima di scendere le ripide scale che lo condussero in un seminterrato dove l’odore di muffa copriva ogni cosa. Una luce timida illuminava tre computer su altrettante scrivanie, dove un curioso caos metodico la faceva da padrona: ogni postazione era disordinata allo stesso modo, con i medesimi oggetti nelle medesime posizioni. Un cartone per pizza mostrava uno spicchio irrancidito, assaltato da mosche inspiegabilmente vive, nonostante il freddo.
«Ce l’hai?», chiese l’uomo, rivelando un remoto accento straniero.
Manuel estrasse il piccolo motore cilindrico, azionandolo prontamente. Il suono, simile al trapano di un dentista, indicò il perfetto funzionamento.
«I soldi?», domandò, tenendosi a distanza dal roditore.
L’uomo lanciò una mazzetta di banconote sulla scrivania. Manuel la raccolse, contando velocemente i pezzi, poi guardò lo straniero con aria interrogativa.
«Per la velocità. Me l’avevano detto che eri svelto», rispose l’uomo.
Manuel ringraziò con un cenno impercettibile del capo.
«Quando agirete?», aggiunse.
Il ratto esitò per qualche secondo, guardandosi intorno, in cerca di qualcosa nell’aria umida:
«Stasera, prima del coprifuoco. Inshallah».
Il berretto della Gendarmeria si abbassò ancora di più sulla fronte, quasi a coprire gli occhi. Le mani tornarono in tasca, in cerca di un minimo di calore. In silenzio risalì le scale e, lasciato il bugigattolo, si fermò a guardare il sole che spuntava da dietro il Vittoriano, mancante della Quadriga della Libertà, distrutta dagli ultimi attacchi.
Il rumore di un fuoristrada che lo seguiva a distanza lo accompagnò fino all’ingresso del monolocale.
«De Sanctis!».
Manuel si fermò, voltandosi verso il mezzo blindato.
«Che ci fai in giro a quest’ora?», gli chiese il vicequestore Moretti, intabarrato con un passamontagna nero.
«Niente, non riuscivo a dormire», ribatté, quasi sottovoce.
«Lo sai che il coprifuoco vale anche per noi?», chiese retoricamente Moretti.
«Certo, superio’».
«E quindi? Come la mettiamo?».
«E come la mettiamo? Mi volete arrestare?», chiese con un mezzo sorriso.
«Avvicinati un po’».
La mano nascosta nella tasca strinse il motorino, tendendo i nervi dell’avambraccio. Mandibola e mascella si serrarono, provocando lo sfregamento dei denti.
«T’ha detto bene che siamo noi, se era la Milizia stavi già in mano al coroner», bisbigliò il vicequestore.
Manuel abbozzò un sorriso alzando un angolo della bocca, la mano si schiuse, la mascella si rilassò.
«Va beh, superio’, ci vediamo tra un paio d’ore, oggi sono di servizio al deposito armi sequestrate».
«Vai vai, De Sanctis. Però stai attento, ‘sto mese siamo già a diciotto dei nostri, contro cinque dei loro».
«E lo so, superio’», chiuse la conversazione, allontanandosi dal fuoristrada.
L’ingresso nel monolocale fu un pugno nello stomaco, per il tanfo di vomito e la paura di essere scoperto.
Frugò tra le stoviglie sporche, trovando una caffettiera incrostata che riempì e posizionò sul fornello, senza neppure sciacquarla. Accesa una sigaretta, ripassò velocemente a mente il numero dei motori da sottrarre al deposito, esitando sui modelli richiesti. Si convinse a prenderne solo tre quel giorno, i più piccoli, quelli per i droni più leggeri, meno potenti, meno devastanti.
Rimorso? No, affatto. Non l’aveva iniziata lui quella guerra, erano stati loro, convinti che i segreti militari dovessero restare tali, anche a costo della vita. E lui ci aveva creduto fino in fondo. Ma la vita non era la sua, era quella delle persone che amava di più. E quelle vite avevano un costo maggiore, soprattutto da quando era consapevole di essere vittima della più grande menzogna, nel preciso istante in cui le foto di Ahmed Al Saahir in tv lo paralizzarono, facendogli capire di essere un piccolo, insignificante ingranaggio.
Ahmed Al Saahir l’aveva conosciuto quando esisteva ancora la Polizia di Stato, prima della riforma delle forze armate. Non si chiamava Ahmed, si chiamava Salvatore Barreca, ed era un italiano, come lui, siciliano per la precisione, dai tratti somatici orientali. Era esploso nella metro di Roma dopo aver indossato, come ogni mattina, un giubbotto che credeva fosse antiproiettili, ma che in realtà era comandato a distanza. Qualcuno lo aveva mandato lì per pedinare un sedicente terrorista. Salvatore aveva eseguito l’ordine senza discutere, inconsapevole di essere solo un mezzo di diffusione del terrore. Le telecamere di sorveglianza lo ripresero nitidamente mentre esplodeva.
Centocinquattotto morti, trecentododici feriti.
La Terza Guerra Mondiale, iniziata quel giorno, sarebbe durata sei anni. Quando finì, i vincitori scrissero la storia, ma le pagine dei libri non conobbero mai il nome di Salvatore Barreca.