Rubrica quotidiana a cura di P. Salvatore Brugnano
Storie belle… per vivere meglio
Da schiavo africano a missionario.
– La vicenda del rapimento di Silvia Romano, cooperante umanitaria in Africa, la sua liberazione e la sua proclamata conversione all’Islam sta riempiendo le cronache di questi giorni, con reazioni contrapposte: di gioia, di sollievo e anche di delusione, di presunto inganno.
– Certamente ognuno può avere una sua personale opinione, ma nell’esprimerla deve stare attento a non invadere il diritto dell’altro: la sua libertà, la sua privacy.
– E poi a ognuno di noi farebbe bene un giro nelle vicende di un passato che ha visto gli europei (e anche gli italiani) crudeli colonialisti in azione nell’Africa per servizio del potere politico ed economico sulla pelle dei poveri del luogo. – Ma anche in queste oscure vicende storiche non sono mancate le storie belle, eroiche di persone che hanno amato l’umanità dolente e l’hanno servito lasciando luminosi esempi. Come non ricordare la storia della dolcissima Santa Giuseppina Bakita? – – Ed oggi ecco una bella figura: Don Daniele Sorur, un prete, il primo di origine sud sudanese, ma soprattutto la voce di un africano del XIX secolo, simbolo di riscatto per il proprio continente. Lo riscopre il libro «Da schiavo a missionario. Tra Africa ed Europa, vita e scritti di Daniele Sorur Pharim Den» (Roma, Edizioni Studium, 2019, pagine 352, euro 26), scritto da Giacomo Ghedini..
Dalla presentazione del libro.
♦ Questo studio di Giacomo Ghedini recupera una figura di africano e di sacerdote — Daniele Sorur — che merita la nostra attenzione.
♦ Era un dinka dell’attuale Sudan del Sud che ignorava come si chiamasse esattamente, dove fosse nato e quando, anche se probabilmente attorno al 1860. Sapeva solo di essere stato strappato alla famiglia con la violenza, cosa allora molto frequente fra le popolazioni che vivevano lungo il Nilo, e reso schiavo di un arabo musulmano che gli aveva dato il nome di Sorur e l’aveva portato verso nord, a El Obeid, nel Kordofan sudanese.
♦ Era un adolescente quando riuscì a fuggire e si rifugiò nella missione cattolica fondata da P. Daniele Comboni. I nomi con cui volle essere identificato dopo il battesimo e la cristianizzazione ricordavano le esperienze fondamentali della sua vita: Daniele era stata la sua salvezza, Sorur la sua condanna.
♥ Comboni lo accolse, lo rieducò, ne intuì l’intelligenza e se lo portò in Italia, facendolo studiare a Roma, nelle migliori strutture cattoliche, e in Libano, dove perfezionò l’arabo. L’ex schiavo divenuto sacerdote imparò a parlare e a scrivere in molte lingue, si impadronì della classica cultura cristiana, girò tutta l’Europa e morì nel 1900, probabilmente di tubercolosi. Aveva circa quarant’anni.
I suoi scritti, sepolti negli archivi, furono presto dimenticati.
♦ Questo libro di Ghedini, largamente fondato su documenti inediti, è dunque il primo lavoro completo su quest’uomo, fatta eccezione per un precedente intervento di Fulvio De Giorgi.
♥ Scopriamo così uno dei primissimi preti africani apparsi in Europa, che strabiliava il pubblico del tempo per la perizia con cui passava da una lingua all’altra, ma spaventava le pie donne, stupefatte e incredule davanti a un nero che celebrava la messa e distribuiva la comunione.
♦ Daniele Sorur visse negli anni in cui esplodeva il colonialismo europeo e l’Africa cadeva preda delle grandi potenze.
♦ Dietro lo scramble for Africa (spartizione dell’Africa), come si disse allora, c’era il profondo senso di superiorità dell’Europa. Un senso di superiorità che sconfinò spesso nel razzismo e che contagiò anche molti ambienti missionari.
♥ Quando studiai la figura di Daniele Comboni, ricordo che rimasi impressionato dai giudizi sprezzanti, oggi inimmaginabili, formulati sugli africani da molti suoi missionari.
Comboni invece guardò all’Africa con il massimo rispetto, intuendo che in quel continente vergine e ancora semiselvaggio poteva esserci il futuro del cristianesimo.
♥ Ebbene, Daniele Sorur, lo schiavo divenuto sacerdote, predicatore e scrittore, fu il prodotto forse più compiuto e anticipatore del suo lavoro. Le riflessioni di questo prete dinka sulla condizione dell’uomo africano, del negro, come si diceva allora con disprezzo, le sue meditate demolizioni delle idee razziste in quegli anni tanto in voga, sostenute da una lucida intuizione della relatività delle culture, la sua capacità di ragionare da pari a pari con l’intellettualità europea, la sua appassionata difesa dell’uguaglianza degli esseri umani, dovunque si trovino, ne fanno un unicum che era tempo di riscoprire.
♥ Ugualmente, ci stupiscono per la loro valenza anticipatrice le sue riflessioni, caute ma inequivocabili, sulla questione del celibato del clero, che in Africa si scontra con abitudini di vita e valori completamente diversi.
♥ La capacità di ragionare di questo “figlio del deserto”, per usare la sua autodefinizione, ponendosi a cavallo di due culture, di due mondi, rispettoso di entrambe ma non appiattito su nessuna delle due, è tanto più notevole se pensiamo che si muoveva — e con devota venerazione — all’interno di un cattolicesimo attardato in una sterile battaglia contro la modernità liberale, che si accodò con molto ritardo alle campagne antischiaviste ottocentesche, come si spiega nella prima parte del libro.
♥ Una figura originale e interessante, insomma, Daniele Sorur. Un precursore che meritava di essere dissepolto dagli archivi e tratto dall’oblio.
(fonte: L’Osservatore Romano, 11 maggio 2020).