L’origine di tre espressioni di uso comune
Lotta senza quartiere: “quartiere” era la quarta parte della paga mensile. Passare in cavalleria, ovvero “mettere nel dimenticatoio”. Non c’è trippa per gatti: niente trippa ai gatti romani, solo topi…
Lotta senza quartiere
L’espressione proviene dall’universo militare, e nacque quando nel caso di offese e litigi i soldati era soliti sfidarsi a duello. Questa usanza, rimasta in voga fino al XX secolo, consisteva in uno scontro con spade, sciabole (offese non gravi e offese riguardanti l’onorabilità personale) e pistola (dal Settecento quando l’offesa coinvolgeva affetti familiari), fino al primo o all’ultimo sangue, nel senso che la disfida poteva terminare con il ferimento o la morte di uno dei due duellanti. C’era una terza possibilità: per mantenere l’onore lo sfidato poteva evitare il combattimento pagando un indennizzo allo sfidante che era la quarta parte della paga mensile, il “quartiere”. Quindi “lotta senza quartiere” intesa come duello, lotta senza possibilità di riscatto, una lotta senza esclusione di colpi.
Passare in cavalleria
Dal secolo XI la cavalleria era un ceto sociale chiuso: diventava cavaliere solo chi era figlio di cavaliere. Gli ideali condivisi erano la difesa dei più deboli, la lealtà verso il proprio signore, il valore in battaglia e l’integrità morale. La cavalleria diventò per secoli il riferimento di tutta la nobiltà europea, anche di quella che non aveva origini militari. I cavalieri appartenevano al secondo ordine della società (i bellatores), mentre il primo ordine era costituito da coloro che avevano il compito di pregare (oratores) ed il terzo da coloro che avevano il compito di lavorare (laboratores). ll cavaliere era un miles Christi, soldato di Cristo, che serviva Dio anche con le armi, anzi morire per la difesa della fede cristiana era un mezzo per conseguire la salvezza eterna. Alla cavalleria era riservato sempre un trattamento particolare, perché era formata da membri dell’aristocrazia e l’intervento di questo reparto nelle battaglie il più delle volte risultava decisivo. Quindi la celebre espressione deriverebbe dal sopruso perpetrato dai cavalieri nei riguardi dei fanti, di umili origini, “obbligati” a rendere la vita militare dei “nobili” più confortevole. I fanti consegnavano vestiti, coperte, armi e vettovaglie ai cavalieri, ma una volta passati in cavalleria non venivano restituiti ai legittimi proprietari. Passare in cavalleria vuol quindi significare “mettere nel dimenticatoio”. Quando i poveri fanti non trovavano qualcosa usavano questa espressione, cioè che era passata in cavalleria.
Non c’è trippa per gatti
“Nun c’è trippa pe’ gatti”. Il modo di dire romanesco in parole più eleganti significa questo: “Non vi è alcuna speranza che una certa cosa venga concessa”. Si usa soprattutto per negare qualcosa a qualcuno in modo molto deciso. Questo detto, inoltre, incita la persona a lottare al fine di perseguire i propri obiettivi, poiché nulla può piovere dal cielo. È necessario, dunque, faticare e lottare per raggiungere gli scopi prefissati.
L’espressione risale ai primi del Novecento, quando il sindaco di Roma Ernesto Nathan cancellò dal bilancio del Comune, causa l’eccessiva spesa, l’acquisto mensile di trippa destinata a sfamare i felini che servivano a dar la caccia ai topi che infestavano il Campidoglio. In quell’epoca il comune di Roma aveva a disposizione una numerosa colonia di gatti che veniva mantenuta allo scopo di ridurre il numero dei topi che minacciavano gli atti e i documenti presenti negli archivi comunali. E così, sul libro del Bilancio comunale, il primo cittadino di Roma pare abbia scritto di proprio pugno la frase poi passata alla storia: “Nun c’è trippa pe’ gatti”.