Secondo la credenza popolare seicentesca era l’intermediario dell’aldilà
L’associazione Respiriamo Arte negli ultimi anni è riuscita a delineare un valido progetto che vede il recupero, la tutela e la valorizzazione di Santa Luciella grazie alla trasformazione di quest’ultima in un sito museale fruibile attraverso visite guidate ed eventi culturali
La chiesa di Santa Luciella
La fondazione della chiesa di Santa Luciella ai Librai risale al 1327 ed è una delle chiese storiche di Napoli, sita nell’omonima via nei pressi della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo e alle spalle della chiesa di San Gregorio Armeno. Fu fondata per volere di Bartolomeo Di Capua, giurista alla corte di Roberto d’Angiò. Fondamentale sito religioso del centro storico napoletano, era il luogo di culto della Corporazione dei Pipernieri dei Fabbricatori e dei Tagliamonti, nata nel 1508, poiché la chiesa è intitolata a Santa Lucia, protettrice della vista, bene assai prezioso per una corporazione che metteva a rischio gli occhi nel corso della propria attività. Nel 1724 la chiesa fu oggetto di un sostanziale rimaneggiamento, infatti il suo impianto è tipicamente barocco. Negli anni ottanta del XX secolo, in seguito al terremoto, la chiesa fu chiusa al culto. Oggi è riaperta al pubblico grazie al lavoro portato avanti dal 2013 ad oggi dall’associazione Respiriamo Arte, fondata e presieduta da Massimo Faella e composta da cinque giovani professionisti nel campo della storia dell’arte e dell’architettura (Simona Trudi, Angela Rogliani, Marcello Peluso e Francesca Licata). L’associazione negli ultimi anni è riuscita a delineare un valido progetto che vede il recupero, la tutela e la valorizzazione di Santa Luciella grazie alla trasformazione di quest’ultima in un sito museale fruibile attraverso visite guidate ed eventi culturali, grazie al patrocino morale del Comune di Napoli, del Museo Archeologico Nazionale, della Curia Arcivescovile e, soprattutto, del supporto economico del Pio Monte di Misericordia.
La Croce di Piperno, i Templari e il Santo Graal
La Croce di Piperno è un vero e proprio simbolo del quartiere Soccavo di Napoli, situata precisamente all’incrocio di via Maratoneta e di via Canonico Giovanni Scherillo. Secondo vari studi la Croce sarebbe originaria del XVII secolo, ed è attribuita all’autore Iunius. F., il cui nome è ancora oggi sconosciuto nella ricerca. La Croce è costituita da due bracci di dimensioni differenti (quello verticale è più lungo rispetto a quello orizzontale), ma la sua particolarità si trova nelle sue rappresentazioni figurative. Alle estremità dei bracci orizzontali, infatti, quasi con certezza sono raffigurati i volti di San Pietro e di San Paolo; al centro, invece, c’è la figura di Gesù Cristo. Purtroppo il tempo ha conservato solo una parte della scultura di Gesù, che appare fasciato da un lenzuolo e da una corona di spine intorno al capo. Il monumento è molto suggestivo, ma soprattutto ha un grande valore simbolico. Esso, infatti, reca non solo in altorilievo l’incisione latina INRI (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum), ma in alto alla suddetta espressione c’è la rappresentazione di un volatile, con molta probabilità una colomba, emblema dello Spirito Santo e della Resurrezione di Gesù Cristo. In contrasto con la colomba, che rimanda alla vita ultraterrena, si notano nella parte inferiore della Croce un teschio, dei chiodi, una veste, espressione non solo della sofferenza corporea, ma anche dell’oscurità cui può arrivare la mente umana. Ma quello che ha sorpreso di più gli studiosi è stata la rappresentazione del “presunto” calice da cui partono dei raggi. Molti ricercatori, infatti, hanno identificato il calice con il Sacro Graal, il calice dell’Ultima Cena di Gesù. È possibile, quindi, che il Sacro Graal abbia fatto tappa a Soccavo? Uno dei punti a favore di questa tesi è la presenza, sulla collina dei Camaldoli (fulcro della lavorazione del piperno), di un casale sulla cui faccia si notano simboli dell’Ordine dei Templari, tra cui il Bafometto.Questa cascina potrebbe essere stata realmente la dimora dei Templari in fuga? Oppure, molto probabilmente, si tratta del talento dei Pipernieri, e della loro passione per le pratiche esoteriche, ad aver lavorato in maniera così particolare la pietra vulcanica? La Croce di Piperno fu innalzata nel 1613 in memoria delle missioni popolari di preghiera per sensibilizzare il popolo alla religione cristiana. La croce ha uno stile celtico, che richiama la fattura medioevale e, come già detto sopra, sono evidenti alcuni simboli in bassorilievi che ancora oggi creano dubbi e superstizioni. Santa Luciella era così luogo di culto per una delle più importanti e potenti arciconfraternite napoletane: la segreta Corporazione dei Pipernieri, Fabbricatori e Tagliamonti. L’arciconfraternita è stata artefice di innumerevoli opere in città, tra cui la maestosa facciata della chiesa del “Gesù Nuovo”, e su di essa circolano numerose leggende che vedono i Pipernieri implicati in vicende di natura mistica ed esoterica, e addirittura coinvolti nelle vicende del Santo Graal di cui, si dice, siano stati a lungo i custodi. Senz’altro i Pipernieri erano “mastri” intagliatori e lavoratori del piperno, una roccia magmatica molto solida e di difficile lavorazione, per cui essi si affidavano a Santa Lucia per ricevere protezione dai frequenti infortuni alla vista e agli occhi dovuti alle schegge di pietre. Di qui la dedica della chiesa alla Santa patrona i cui simboli si ritrovano all’interno, e sul cui maestoso portale d’ingresso in piperno è ancora visibile lo stemma della Corporazione.
Il culto delle anime pezzentelle
Le anime pezzentelle sono le anime dannate, dimenticate perché “pezzenti”. I napoletani si sono sempre identificati di più con queste anime, quasi a condividere la stessa sorte di miseria e speranza. Sono queste le ragioni che hanno fatto nascere e crescere il culto delle capuzzelle (teschi). La venerazione delle anime dei defunti è diventata, in un certo periodo della storia partenopea, l’unico rifugio per i vivi di fronte all’incombenza della morte e della disperazione: fu soprattutto a partire dal Seicento, quando una terribile epidemia di peste si portò via quasi trecentomila persone, che il rapporto con la morte divenne fonte di vita e speranza per coloro che sopravvivevano. Ragione di espiazione e pentimento, per lo più: si ritenne infatti che la terribile pestilenza si fosse abbattuta sulla città a causa dei peccati della popolazione. I vivi decisero che era giunto il momento di venerare la morte. Nel caos generato dalla pestilenza e dai successivi provvedimenti che vietavano l’inumazione nelle chiese per ragioni di igiene e, secoli dopo, nello sgomento provocato dalla guerra, tantissimi furono i morti che non ebbero degna sepoltura. Per lo più, coloro che in vita non erano stati abbastanza ricchi o importanti da guadagnarsi un posto di rilievo anche dopo la morte: anime “pezzenti”, abbandonate, dimenticate. nasce così la credenza che pregando per loro, per i defunti senza identità, un giorno chi se n’era preso cura avrebbe ricevuto il perdono, o la grazia, o a sua volta il regalo di un ricordo affettuoso dopo la morte. A Napoli la morte è l’altra faccia della vita: non si scaccia, ci si allea per averne vantaggio.
Le anime purganti sono il legame con l’aldilà , quelle che guidano e proteggono chi è ancora in vita.
Adottare una “capuzzella” (teschio) diviene un rituale centrale nella vita del popolo napoletano: adornarle con merletti e fiori, portare saltuariamente piccoli doni e preghiere a questi volti senza identità, e praticare una pietà che molto probabilmente questi morti in vita non avevano avuto è un modo per riscattarle dall’oblio e per sperare di ottenere, chissà, qualcosa in cambio. Succedeva che siccome queste nel camposanto delle Fontanelle sono anime anonime che non hanno avuto degna sepoltura ed è per questo che sono ferme al Purgatorio, la famiglia che aveva adottato l’anima persa pregava per lei affinché giungesse in Paradiso verso la pace ma, in cambio, la capuzzella doveva chiedere a San Pietro dei favori per i diretti interessati. Se le anime non gli giungevano in sogno e, quindi, il favore non si realizzava, la capuzzella veniva abbandonata a se stessa e si passava all’adozione di un’altra. Se invece il miracolo accadeva, il teschio diventava una sorta di santo protettore della casa e poteva anche avere degna sepoltura.
Un intermediario dell’aldilà
La leggenda del teschio con le orecchie si rifà al culto delle anime pezzentelle e trova corpo nell’antico ipogeo inferiore (vi si accede dalla piccola sacrestia) della chiesa di Santa Luciella, dove il cranio fu ritenuto oggetto di devozione popolare e considerato intermediario dell’aldilà già nel Seicento. Ha un certo fascino e mistero questo che sostanzialmente è un cimitero con la presenza di scolatoi e una fossa comune per la sepoltura delle ossa. Anche qui quindi il rituale della “scolatura dei corpi”, ovvero quella pratica locale che permetteva l’essiccazione dei corpi tramite lo svuotamento dei liquidi corporei mediante gli scolatoi, e in seguito veniva data la sepoltura definitiva allo scheletro. I teschi venivano ammassati e disposti lungo il bordo dell’ipogeo e fra questi senza dubbio il più noto è il teschio con le orecchie.
Non è ben chiaro che si tratti di cartilagini che hanno subito un processo di mummificazione o vere parti ossee auricolari, ma sta di fatto che questo esemplare è davvero unico. Secondo la credenza popolare seicentesca, fu ritenuto oggetto di devozione e di riguardo, l’ intermediario dell’aldilà, poiché si credeva, fantasiosamente, che avendo le orecchie poteva ascoltare le preghiere dei devoti e intercedere rapidamente presso il cielo a favore di qualche grazia.
Nella sala del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nella sezione in cui sono custoditi i mosaici di epoca romana, si trova un piccolo mosaico che sfugge all’occhio umano. Al centro di quest’opera pende un filo a piombo che sostiene un insolito teschio con strane orecchie ossee. Questo teschio a sua volta poggia su una leggerissima farfalla che si adagia su una ruota a sei raggi. Sul lato destro della rappresentazione si intuisce a mo’ di pilastro un bordone da viaggiatore con la sacca e il manto di vello di montone; a sinistra si nota una lancia «aulica» rovesciata con un’infula, ovvero una benda (nell’antichità la adoperavano i sacerdoti, i vestali e le vittime da consacrare agli dei) e un manto di porpora.