L’espressione nasce nel 1077, quando Enrico IV si umiliò chiedendo al papa di revocargli la scomunica
Per l’imperatore furono tre giorni di penitenza al freddo e al gelo, vestito di un solo saio, con il capo cosparso di cenere
Questa storia prende il via da un testo normativo promulgato nel lontano 14 giugno dell’877 da Carlo il Calvo, nipote di Carlo Magno, nella città di Querzy-sur-Oise, e per tale ragione chiamato Capitolare di Quierzy. Il testo, in estrema sintesi, stabiliva che i feudi maggiori dell’Impero erano ereditari: in sostanza venivano trasmessi di padre in figlio senza che il re potesse rientrarne in possesso, con somma gioia dei feudatari. In realtà un approfondimento sul testo normativo porterebbe alla luce un’altra verità: e cioè che alla morte del vassallo tutto veniva rimesso nelle mani del re, ma poi il re faceva ripetere al figlio il giuramento del padre e il feudo di fatto, anche se non di diritto, veniva ereditato. Questo perché l’imperatore, partendo in guerra col suo seguito, doveva assicurarsi la lealtà dei vassalli, e quindi il compromesso è presto spiegato: tu, vassallo, mi hai giurato fedeltà e ti unisci al mio seguito; io, l’imperatore, ti concedo il feudo, e se muori in battaglia lo erediterà tuo figlio e/o comunque la tua famiglia. Eccolo il “do ut des” in salsa imperiale. Soffermiamoci su questo punto: l’ereditarietà dei feudi. Fu un problema di non poco conto per l’imperatore Ottone I di Sassonia, che si fece incoronare in San Pietro il 2 febbraio del 962. Ottone era consapevole del fatto che se non avesse limitato il potere della nobiltà feudale, non avrebbe mai potuto controllare come avrebbe voluto, cioè direttamente, il territorio imperiale. Purtroppo il Capitolare di Quierzy limitava il suo potere: sulla carta era lui l’imperatore, ma in pratica non controllava nulla, perché non poteva mettere il becco sull’ereditarietà dei feudi. La soluzione non tardò a venire, ed era al contempo semplice e geniale: coinvolgere le alte autorità ecclesiastiche nelle attività di governo e di amministrazione dei feudi. In soldoni significava affidare i feudi ai membri del clero, creando la nuova figura dei vescovi-conti, che esercitavano sia il potere temporale sia quello spirituale. Vescovi e abati non potevano avere figli, quindi alla loro morte le terre ritornavano nelle mani dell’imperatore. E chi aveva il diritto di nominare i vescovi–conti? Be’, semplice, l’imperatore. Quindi l’imperatore si arroga il diritto di nominare i vescovi, prerogativa che spetta unicamente alla Chiesa. Dal 2 febbraio, giorno dell’incoronazione in San Pietro, al 13 febbraio, data del decreto emanato dal sovrano che va sotto il nome di Privilegio di Ottone, il neoeletto imperatore del Sacro Romano Impero Germanico ha intenzione di trasformare la figura del papa in un suo semplice vassallo; inoltre, secondo il decreto, la futura elezione del pontefice doveva avvenire previo consenso dell’imperatore e il Santo padre era altresì obbligato ad incoronare imperatore solo membri delle famiglie tedesche. In poco più di 10 giorni Ottone I voleva cancellare 10 secoli di storia. Grazie a quel decreto egli fece nominare la bellezza di 14 pontefici sino al 1061, quando papa Nicolò II annullò il quel Privilegio stabilendo che l’elezione papale doveva avvenire senza imposizione dell’imperatore. Tanta acqua era passata sotto i ponti dal 962 al 1061. Gli imperatori della casa di Sassonia lasciarono il posto alla casa di Franconia della dinastia salica, mentre dopo papa Nicolò II e Alessandro II si arrivò al 1073, quando salì al soglio pontificio Gregorio VII, un monaco cluniacense. Ildebrando di Soana, questo il suo nome di battesimo, era l’uomo giusto per la Chiesa, dopo anni in cui aveva dovuto subire le ingerenze imperiali. Nel 1075 Gregorio VII emanò il Dictatus Papae (Dichiarazione del papa), documento che affermava la superiorità del papa su qualsiasi altro potere; stabiliva inoltre che solo il pontefice poteva nominare vescovi e abati e che il papa aveva il diritto di deporre gli imperatori e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà verso i sovrani ostili alla Chiesa. Un ex monaco dell’abbazia benedettina di Cluny, in Francia, che si permette il lusso di comportarsi in maniera così irrispettosa nei confronti dell’imperatore, be’, era troppo. Enrico IV di Franconia dichiarò deposto il papa: era il minimo che poteva fare dopo aver preso visione di quel documento a dir poco irrispettoso. A sua volta Gregorio VII compie la mossa che si rivelerà vincente: lo scomunica. Ciò comporta l’esclusione dalla comunità dei credenti, un fatto gravissimo per l’imperatore, perché i sudditi avrebbero potuto sciogliere il giuramento di fedeltà al sovrano e quindi era forte il rischio che perdesse il trono. È l’inverno del 1077 e l’imperatore Enrico IV pensò bene di chiedere perdono al papa, recandosi al castello della contessa Matilde di Canossa (provincia Reggio Emilia), dove Gregorio VII era ospite. Si narra che dopo tre giorni di penitenza al freddo e al gelo, vestito di un solo saio, con il capo cosparso di cenere e grazie anche all’intercessione della contessa, il papa ricevette l’imperatore e gli revocò la scomunica. L’espressione “andare a Canossa” è entrata da allora nel linguaggio comune ed è utilizzata in tante lingue (“Nach Canossa gehe”,”Go to Canossa”, “Aller à Canossa”) per dire “umiliarsi, chiedere perdono, fare penitenza”. Enrico IV si umiliò, ma non avrebbe potuto fare diversamente se voleva mantenere il suo scranno, perché il fine giustificava i mezzi. Si trovò di fronte un osso duro, il 157° papa, uno dei più importanti successori di Pietro e certamente il più importante dell’XI secolo, che con ogni probabilità non l’avrebbe fatta passare liscia neppure a una personalità così forte e determinata come quella di Ottone I. C’è da crederci.