Rubrica quotidiana a cura di P. Salvatore Brugnano
Storie belle… per vivere meglio
Carcere per rieducare, non per reprimere.
-Un tema scottante, che sfida l’opinione pubblica ogni volta che casi di efferata violenza offendono l’umanità di chi la subisce e la sensibilità di chi magari sta solo a guardare.
– E poi i casi di violenza reiterata da soggetti che, mentre stanno scontando la pena detentiva, in occasione di permessi premi, non esitano a ritornare a delinquere ed anche ad uccidere. E non sono pochi coloro che gridano contro l’inefficacia del regime carcerario in Italia.
– Ultimamente Papa Francesco, ricevendo i responsabili della pastorale penitenziaria, non ha esitato a lanciare un appello: “Carcere per rieducare, non per reprimere” ed ha esortato i cristiani a non “punire” con l’indifferenza chi esce dal carcere, ma aiutarlo nel reinserimento lavorativo e sociale.
– Ma per “recuperare” che è “perduto”, davvero occorre una azione di pastorale globale in cui siano tutti coinvolti.
Papa Francesco, ricevendo in udienza i partecipanti all’Incontro internazionale per i Responsabili regionali e nazionali della Pastorale Penitenziaria, che si è chiuso l’8 novembre 2019, ha offerto alcuni spunti nodali sul grave problema. In effetti ci rendiamo conto che una società che non riesce a “recuperare” i suoi membri che delinquono è come una famiglia che non riesce a recuperare i suoi figli che sbagliano.
Ecco alcuni spunti del Papa.
- È più facile reprimere che educare, negare l’ingiustizia presente nella società e creare spazi per rinchiudere nell’oblio chi sbaglia anziché offrire uguali opportunità di sviluppo a tutti i cittadini.
- Non poche volte, i luoghi di detenzione falliscono nell’obiettivo di promuovere i processi di reinserimento perché mancano risorse sufficienti che permettono di affrontare i problemi sociali, psicologici e familiari incontrati dai detenuti, così come per il frequente sovraffollamento nelle carceri che li rende veri luoghi di spersonalizzazione.
- Un vero reinserimento sociale inizia garantendo opportunità di sviluppo, educazione, lavoro dignitoso, accesso alla salute così come generando spazi pubblici di partecipazione civica.
- Oggi, in particolare, le nostre società sono chiamate a superare la stigmatizzazione di chi ha commesso un errore, perché invece di offrire aiuto e risorse adeguate per vivere una vita dignitosa, siamo ormai abituati a rifiutare piuttosto che considerare gli sforzi che una persona fa per corrispondere all’amore di Dio nella sua vita.
- Molte volte all’uscita dalla prigione, la persona affronta un mondo che gli è estraneo e che non lo riconosce degno di fiducia, escludendolo anche della possibilità di lavorare per ottenere un degno sostentamento.
- Come comunità cristiana dobbiamo farci una domanda: Se questi fratelli e sorelle hanno scontato la pena per il male commesso, perché viene messa sulle loro spalle una nuova punizione sociale con rifiuto e indifferenza? In molte occasioni questa avversione sociale diventa un motivo in più per esporre queste persone alla possibilità di cadere di nuovo nei propri errori.
(fonte: Avvenire.it, 8 novembre 2019).